Letture sopra la mitologia vedica. Angelo De Gubernatis. Читать онлайн. Newlib. NEWLIB.NET

Автор: Angelo De Gubernatis
Издательство: Bookwire
Серия:
Жанр произведения: Языкознание
Год издания: 0
isbn: 4064066068608
Скачать книгу
gl'Inni vedici non ci dicano in modo preciso che Dyu feconda la Prithivî celeste come feconda la terrena, nel trovarvi appellato Parg'anya figlio di Dyu, abbiamo qualche ragione probabile di supporre Dyu sposo della Prithivî celeste. Da prima egli si fecondò nel cielo, e poi una sua creatura, ossia un altro sè stesso fecondò la terra. Nè solo la Prithivî celeste, ossia la vasta, la distendentesi, dovettero in origine essere la nuvola, occupante tutto il cielo, ma ancora la tenebra notturna, la notte e la nuvola, e l'aurora, uno de' nomi vedici della quale è pure Urvâçî, ossia la larga avanzantesi. E, come troviamo Dyu che, oltre il cielo luminoso, significa anche il giorno, così interpreto pure la Prithivî celeste ora pel cielo notturno, ora per la prima e l'ultima parte del giorno rappresentate dalle grandeggianti aurore. E mi rappresento il vedico duale Dyavâ Prithivî come un equivalente di Mitra e Varuna, Mitra il giorno, Varuna il copritore notturno, e poi l'acquoso oceano. È solamente per mezzo di questa interpretazione che noi possiamo intendere come Dyu e Prithivî siano chiamati insieme Devaputre, ossia aventi per figli gli Dei; chè il cielo luminoso diurno e il cielo notturno e crepuscolare, che può essere luminoso anch'esso, sono i soli veri e proprii genitori degli Dei, ossia dei luminosi, mentre sarebbe un assurdo il supporre la terra madre degli Dei. Di Bhûmideva, o Dio della terra, gl'Indiani ne conobbero uno solo, il Bramino, per decreto della stessa casta brâhmanica, e il fuoco sacrificale sua creatura; gli altri Dei sono tutti celesti. E, quando nell'inno vedico (Rigv., VI, 50) si trova congiunto Dyaur devebhih Prithivî samudrâih, mi parrebbe ancora nel primo caso di vedere il cielo luminoso popolato di Dei, nel secondo il cielo tenebroso, o notturno, o nuvoloso, e però naturalmente acquoso, crepuscolare, mentre mi parrebbe un non senso il rappresentare la terra acquosa per rispetto a Dyu, ch'è appunto celebrato come quello che manda giù l'acqua. Non negando dunque io in alcuna maniera che la Prithivî ricordata negl'Inni vedici non sia spesso la terra fecondata dal cielo, credo si debba nel duale Dyavâ Prithivî considerare più spesso una Prithivî celeste, della quale può esser duplice, sebbene analoga, la natura, secondo che la si consideri nella nuvola o nella notte tenebrosa e luminosa e, come luminosa, anche nell'aurora, che vedemmo già chiamarsi larga. Che la nuvola sia chiamata l'ampia, la distendentesi; che la notte sia considerata come la distesa (âyatî), lo rileviamo dall'inno 127º del X libro del Rigveda, in cui la notte luminosa è cantata sotto il suo appellativo di râtrî: essa caccia, per mezzo de' suoi occhi risplendenti, d'ogni parte le tenebre; sul principio della notte, quando gli astri non brillano ancora in tutto il loro splendore, appaiono i mostri tenebrosi, che la notte luminosa deve tenere lontani; quando verso il mattino gli astri notturni impallidiscono, ritornano i mostri tenebrosi; allora è invitata l'aurora mattutina, la grandeggiante figlia del cielo, a disperderli. La relazione, in cui sono poste in quest'inno fra loro la notte e l'aurora, chiamate fra loro sorelle, e la somiglianza dei loro ufficii, ci danno diritto a supporre la notte come figlia del cielo al pari dell'aurora. Siccome vedemmo Parg'anya esser chiamato figlio di Dyu, dicemmo Prithivî esser pure celebrata in due inni vedici come la nuvola pluvia; niente di più naturale che il considerare anche la Prithivî celeste come figlia di Dyu. Come poi l'aurora si congiunge con gli Açvin, i Dioscuri indiani, così, nell'inno 132º dello stesso X libro del Rigveda, essi trovansi uniti con la Bhûmî, noto equivalente della Prithivî, nuova analogia che ci permette di ravvisare nella Prithivî congiunta con Dyu un essere celeste. E questa probabilità cresce, osservando come nello stesso inno 132º, nel quale s'incominciano a celebrare Dyu e Bhûmî (altro nome di Prithivî), in relazione con gli Açvin, dei quali l'uno è in particolare relazione col giorno, l'altro con la notte, si cantano pure Mitra e Varuna, dei quali il primo regge il cielo diurno, l'altro specialmente il cielo crepuscolare e notturno. Quando poi i due cieli, il Dyu per eccellenza, il cielo diurno, e il Dyu notturno si riuniscono, abbiamo un essere supremo, che, come mascolino, si chiama Divaspati (una specie di Diespiter), ossia Indra, e come femminino si chiama Aditi. Indra si vede venir fuori dal Dyu, dalla Prithivî, dall'oceano, dal cielo nuvoloso (Rigv., IV, 20); è evidente che in queste sedi del Dio Indra si enumerano tutti gli aspetti del cielo. Ma la parola Dyu, div, non fu solo un mascolino, ma anche un femminino; questo femminino prese nel mito il nome speciale di Aditi, ossia la infinita, indestruttibile vôlta celeste, la luminosa insieme e la larga, la madre degli Dei luminosi, degli Adityas. Essa è pure la madre di Mitra e Varuna. Un inno (Rigv., IX, 97), dopo avere invocato il padre Cielo (Dyaushpitar), la madre Prithivî (Prithivî matâr), il fratello fuoco, gli otto Vasavas luminosi reggitori del mondo, e gli eroici Adityas o figli di Aditi, invoca finalmente Aditi come la Dea celeste che comprende in sè sola tutti gli Dei. Come madre dei venti (mâtâ rudrânam), che finalmente essa viene in un inno salutata (Rigv., VIII, 90), e sorella degli Adityâs e figlia dei Vasavas, essa non può essere che una personificazione celeste. La Prithivî pertanto ch'essa rappresenta mi sembra ancora dover essere una figura del cielo. Noi abbiamo già rammentati tre mondi, e tre cieli, o luminosi; dobbiamo aggiungere che gl'Inni vedici distinguono pure tre Prithivî, ossia tre larghe: una risponde al cielo altissimo, l'altra al cielo medio, la terza al cielo infimo; questa terza Prithivî può essere la terra nostra, ma tuttavia ne dubito, per quanto questa Prithivî sia originaria produttrice di Dei e di miti. Chè, se accennammo come il trimundio vedico sia già diviso in etere celeste, aria e terra, e come in ciascuno di questi tre mondi i poeti vedici della decadenza collocarono undici Dei, ho pure avvertito come questa enumerazione fosse capricciosa ed arbitraria. Il terzo mondo, il terzo cielo, la terza Prithivî, sono figurati per l'amore del numero tre; nato questo terzo mondo, questo terzo cielo, questa terza Prithivî, era naturale che si pensasse alla terra, come produttrice alla sua volta di Numi. Che la terra avesse fin dalla più remota antichità vedica carattere sacro e venerando, non può essere messo in dubbio; essa era chiamata matâr. Questa parola vale propriamente la produttrice; ma, significando perciò anche la madre, dimenticato il senso etimologico della parola, si vide solamente più in essa la madre, e come madre i poeti vedici le parlarono con quel linguaggio tenero ed affettuoso con cui si suole parlare ad una madre. Manu ha pur detto che la madre è un'immagine della terra.

      Immaginatosi quindi un terzo cielo, prossimo alla terra (forse il cielo delle nuvole e dell'aurora, il più vicino alla terra), gli Dei di questo terzo cielo si unirono con la Prithivî loro corrispondente, la quale suppostasi quindi essere la terra stessa, questa diventò alla sua volta sede amata degli immortali, i quali posero pur amore alle figlie della terra, come ce lo provano le leggende del periodo brâhmanico. Ma la terra che raccolse alcuni Dei, non ne ha creato alcuno vivace, nella sua forma originaria. E s'io ho tanto insistito su questo punto e se vi insisterò ancora un altro poco, non ho bisogno di dichiararvene il motivo, dopo il principio che abbiamo posto, tutti gli Dei primitivi essere nati nel cielo. S'io potessi ammettere che la Prithivî del duale vedico Dyavâ-prithivî è sempre la terra, dovrei, per questa sola interpretazione, alterare tutto il carattere della mitologia vedica. Ma quello che abbiam detto sembra darci il diritto di distinguere negl'Inni vedici una Prithivî celeste che concorre essa stessa a produrre Numi e miti, dalla Prithivî terrestre, la terra, la quale non fa altro se non ricevere i beneficii del cielo, e però della stessa Prithivî celeste, per diventare alla sua volta benefattrice degli uomini. Escluso pertanto dal nostro studio quello che non appartiene propriamente al mito, vediamo ora come il cielo si manifesti negl'inni vedici in congiunzione colla Prithivî celeste. Dyu è il luminoso, Prithivî è la larga; la luce si propaga nello spazio. Senza spazio non vi è splendore; lo splendido e la larga ci danno insieme tutto il cielo nel suo colore e nella sua estensione. Il giorno ha bisogno per riuscir pieno di occupar tutto lo spazio celeste; così pure la notte non è compiuta se non quando tutto il cielo s'è popolato di stelle. Sotto questo rispetto, avremmo due luminosi e due larghe celesti, il luminoso diurno e il luminoso notturno, la larga diurna e la larga notturna. Noi avremmo congiunte più tosto due qualità del cielo stesso, che due mondi diversi; la luminosa larga diurna, la luminosa larga notturna; e le due qualità considerate come femminine (osservo