Un inno vedico si esprime così: «Veneriamo i grandi, veneriamo i piccoli, veneriamo i giovani, veneriamo i vecchi (Dei); agli Dei, se è in poter nostro, sacrifichiamo.» Ora questa distinzione che si fa già nel Rigveda, di Dei grandi e di Dei piccoli, di Dei giovani e di Dei vecchi, giova pure a noi per incominciare qui ad occuparci degli Dei meno divini, di quegli Dei anonimi, che gl'Indiani chiamavano confusamente con un solo nome Viçve devâs (Tutti Dei), cui facevano un solo sacrificio in comune, come il Calendario cattolico ha destinato nell'anno un giorno solo festivo per tutti que' Santi (Ognissanti), ai quali non può concedere il privilegio di una festa speciale in loro gloria. Quanti fossero quegli Dei è difficile determinare. Parecchi Inni vedici, riconoscendo tre mondi, la terra, l'aria, il cielo, quando non parlano di centinaia e di migliaia di mondi, con metodica giustizia distributiva collocano undici Dei sopra la terra, undici nell'aria, undici in cielo. Ma da questi trentatrè Dei anonimi si separano talora, e si nominano quindi distintamente alcune altre divinità maggiori; così che que' trentatrè, presi insieme, riescono per lo più soltanto genii, spiriti, espressioni ideali senza figura, anzichè persone mitiche, con carattere individuale spiccato. Negli Dei poi che si suppongono presiedere ai sacrificii, non vi è neppure più il genio, ma si adorano le parti materiali del sacrificio stesso, come i Cattolici baciano ancora le sacre soglie, le porte sante, le sacre colonne, i sacri altari, i sacri arredi, i sacri strumenti che concorrono a celebrare il sacrificio divino. Lo stesso culto idolatrico che i Cattolici prestano non solo al sacrificio, ma alle parti, delle quali il sacrificio consta, si ritrova assai più minuto, o preciso e rituale, nell'ultimo periodo vedico.[2] Moltiplicato così senza fine il numero degli esseri divini, a ciascuno de' quali il Rigveda attribuì pure la sua forma femminina, ossia una Dea compagna, i devâs perdettero pure, nel loro aspetto collettivo, ogni loro importanza, in modo che non solo si isolarono dagli Dei massimi, ma si rappresentarono pure come avversi ad essi. Un inno del Rigveda ci fa sapere come tutti gli Dei combatterono Indra. Nel Yag'urveda nero, gli Dei si rappresentano come abitatori della terra, che rubano l'offerta sacrificale, che recano danno ai sacrificatori. Nell'Atharvaveda, il fuoco sacrificale è pure invitato a cacciare gli Dei. A questo punto, al quale ci conducono gli stessi Inni vedici, in cui cioè gli Dei stanno già in terra, e rimuovono gli uomini dalle opere pie che devono conciliar loro la grazia de' luminosi celesti, noi vediamo staccarsi la religione iranica dalla vedica. Il deva indico diviene lo zendico daeva, un vero genio maligno, mentre invece l'asura, lo spirito, e specialmente lo spirito maligno, demoniaco dell'India vedica diviene lo zendico Ahura, il genio buono, che entra nel nome di Ahura-mazda, ossia Ormuzd. Il moltiplicarsi infinito dei devâs vedici nocque dunque alla loro gloria; poichè nel moltiplicarsi, discesi in terra, degenerarono, e riuscirono finalmente a combattere contro la loro propria primitiva natura. Il deva non risplende se non in cielo; abbassato sulla terra, incomincia col diventar idolo; e l'idolo diviene finalmente mostro. Questo è l'ultimo aspetto che ci rappresentano i vedici devâs nella fantasia popolare. Ma quasi contemporaneamente, per un altro ordine d'idee, con l'idolo terreno, sopra il Dio reale celeste, divenuto ideale, si produce il nume astratto dei devâs, che godono nell'alto, onnipotenti, amici de' mortali ad essi devoti, che ascoltano le preghiere, che ne appagano i desiderii, e (secondo il Çatapatha Brâhmana) ne indovinano i pensieri, contro ai voti dei quali è vano ribellarsi, che amano l'ambrosia, e perciò sono immortali (e i mortali che si cibano di ambrosia, non solo divengono ancor essi immortali, ma acquistano il privilegio di conoscere gli Dei). Nello studio di queste nozioni vediche intorno agli Dei di un periodo mitico di decadenza, fondarono evidentemente i Brâhmani la loro teologia e religione gangetica. È questa parte, per così dire, ora brutale, ora spirituale e metafisica della mitologia vedica, la quale si trova sparsa qua e là negl'Inni vedici, che i Brâhmani si proposero d'illustrare e ridurre ad unità. Perciò la letteratura di commento ai Vedi rappresentata dai Brâhmana, dalle Upanishad e dai Sûtra, e i sistemi filosofici vedantini, che si mostrano indifferenti ai miti propriamente detti, raccolgono scrupolosamente dagl'Inni vedici tutto ciò che può giovare a costituire dommi religiosi e riti sacrificali corrispondenti. La così detta cosmogonia vedica appartiene pure a questo periodo secondario, e quegli Dei, nella prima età de' quali, secondo un inno vedico, dal non essere fu creato l'essere, non sono più figure di fenomeni fisici, ma forze arcane, ideali, già dominanti metafisicamente la materia. Appartiene pure a questo periodo la produzione di numi come Prag'âpati, Brahmanaspati, Purusha, Brahman, e simili figure astratte del Dio, delle quali avremo, al fine del nostro studio, a considerar la natura specifica. Intanto ho creduto mio dovere, innanzi di entrare ne' miti vedici, accennarvi a tutto ciò che si mescolò con essi, senza avere con essi analogia di origine e di carattere. Quando il deva discende a terra, abbiamo veduto ch'esso perde la sua prima e propria natura mitica; quando egli diviene nel cielo un'astrazione, e non corrisponde quasi più ad alcuna forma fisica, incomincia la religione, e finisce la mitologia vedica; esclusi dalla quale gli elementi che non le sono proprii e caratteristici, il nostro studio diviene più semplice, e, s'io non m'inganno, più efficace; e possiamo ancora noi affacciarci la grave e consueta, ma un po' oziosa questione che preoccupa la storia d'ogni antica religione: se cioè nell'età vedica domini il Monoteismo od il Politeismo. Per risolvere tale questione dobbiamo dunque semplicemente distinguere l'età vedica in tre periodi: il più antico, assolutamente politeistico, ci offre gli Dei fisici; in un periodo secondario, gli Dei fisici pigliano persona eroica; in un terzo periodo, appare il Dio uno, ossia il Dio metafisico, che nasce generalmente al di fuori degli Dei personali, sopra un nome che non appartiene ancora o non appartiene più ad alcuno; si crea allora il Dio per l'attributo, e non più l'attributo pel Dio.
Ritornando, quindi, al nostro primo asserto, nel principio si adorarono le sole forze e forme singolari e molteplici della natura; ma, se nell'Olimpo vedico si vuol rappresentare con una sola parola tutti gli Dei, non troviamo altro centro di unità all'infuori del cielo. Così, nel nostro linguaggio, siamo ancora soliti ad invocare il cielo come sommo nostro protettore. Più spesso che il nome di Dio, il quale non può essere proferito invano, le nostre donnicciuole pregano il cielo, perchè faccia le grazie da loro desiderate; il cielo rappresenta, per esse, l'Onnipotente. Il cielo deve accompagnare gli amici che si mettono in viaggio, e s'impreca avverso ai nemici; per amor del cielo si supplica; ed è il cielo che ci deve guardare dal fare il male. La nozione del cielo come sede del divino, passata nel primo versetto della Orazione domenicale cristiana, è più antica del Cristianesimo. Invocando il cielo, noi, se pensiamo a qualche cosa (il più spesso non pensiamo a nulla), ci raffiguriamo la sola vôlta azzurra; ma, nel nominarlo, gli attribuiamo una potenza arcana, che, per essere incombente sopra di noi, immaginiamo a noi inevitabilmente propizia o funesta. Il cielo è ornato di astri luminosi e armato