E ancora ritroviamo una Prithivî celeste in quelle due Dyâvâ-prithivî larghe, solide, vaste, invocate per ordine, genitrici, di bell'aspetto, che custodiscono l'ambrosia. Chè, se le leggende posteriori brâhmaniche fanno discendere l'ambrosia, l'acqua della vita, sopra la terra, ove gli eroi fortunati la sottraggono ai draghi guardiani, la vera, originaria sede dell'ambrosia è il cielo. L'inno si termina, pregando Dyavâ-prithivî d'essere padre e madre, ossia protettore completo per i loro devoti invocatori. In tutto l'inno non abbiamo un solo indizio d'una Prithivî terrena, nè un solo epiteto che non possa convenire alla Prithivî celeste. Nell'inno 40º del II libro del Rigveda, Dyu e Prithivî sono considerati come creature degli Dei Soma e Pûshan, i custodi di tutto l'universo e della divina ambrosia; nell'amritasya nâbhi di Soma e Pûshan è agevole il riconoscere l'amrita od ambrosia, di cui vedemmo già Dyavâ-prithivî custodi, e il nâbhi supremo, a cui nel loro apogeo Dyavâ-prithivî arrivano. E della natura primeva celeste degli Dei vedici Soma e Pûshan non è lecito il dubitare. Nell'inno 41º del II libro del Rigveda, Dyâvâ-prithivî s'invocano perchè cerchino fra gli Dei l'offerta sacrificale arrivante fino al cielo, e gli Dei perchè si veggano fra loro; non mi par possibile qui immaginare la terra come messaggera; e mi convien perciò supporre una Prithivî messaggera celeste. Nell'inno 55º del IV libro, Dyavâ-bhûmî equivalenti di Dyavâ-prithivî s'invocano insieme coi Vasavas, con Aditi, con Mitra e Varuna, ossia con persone mitiche di certa origine celeste. E, in un'altra strofa dello stesso inno, come a definirci meglio il carattere di Dyavâ-bhûmî dopo la materna Aditi si nominano i due giorni, ossia il giorno e la notte, l'aurora e la notte (ahanî-Ushâsânaktâ). Nell'inno 70º del VI libro del Rigveda, le Dyavâ-prithivî sono le fornite di burro, le larghe, le belle, le melliflue, le ricche di seme, tutti attributi che convenendo al celeste Dyu potrebbero pure convenire ad una Prithivî celeste; ma quegli epiteti di ghritaçriyâ, ghritapric'â, ghritâvridhâ, ossia godente nel burro, saziantesi nel burro, accrescentesi nel burro, riferiti alla terra, non si sa troppo quanto le si appropriino, mentre si comprende come la Prithivî ambrosiaca celeste (il burro, il miele e l'ambrosia assimilandosi) possa in tal modo denominarsi. Quando l'ultimo inno del settimo libro prega la Prithivî, perchè liberi dal male che viene dalla Prithivî e l'atmosfera dal male che viene dal cielo, è possibile che si tratti della terra e dei mali che possono all'uomo derivare dalla terra. Ma quando il Dio Indra, nel sesto inno dell'ottavo libro, estende come una pelle le due rodasî, e come esse sono chiamate Dyavâ-prithivî, in queste rodasî che si distendono a piacere di Indra, in queste due vesti acquose che coprono il cielo, in questi due oceani celesti che Indra allarga, in queste due rive, spesso luminose, ch'egli supera, non possiamo riconoscere che il cielo diurno e il cielo notturno, il cielo luminoso e il cielo tenebroso o nuvoloso, o le due estremità luminose del cielo. La luce, la tenebra, la nuvola, l'aurora sono elastiche, ed Indra, il signore del cielo, le può a suo piacere distendere; Indra che allarga la terra non si potrebbe spiegare. È incerto, se si debba vedere la terra nel 58º inno del X libro del Rigveda,[5] che tradurrò per intiero. È un inno funebre, in onore del morto Subandhu: «Poichè l'anima tua se ne andò lontano presso Yama, figlio di Vivasvant (il Dio dei morti), perciò noi ce ne ritorniamo qua ad abitare ed a vivere. Poichè l'anima tua se ne andò lontano nel cielo, nella Prithivî, nella Bhûmî dai quattro angoli, ne' quattro punti dell'orizzonte, nell'oceano acquoso, ne' lampi,[6] nelle acque, nelle erbe, nel sole, nell'aurora, ne' monti giganteschi, in tutto il mondo, negli estremi confini; e poichè l'anima tua se ne andò lontano in quello che fu, in quello che sarà (ossia, poichè non è più presente), noi ce ne ritorniamo qua ad abitare, a vivere.» Da questo interessante inno panteistico si comprende che l'anima del morto si disperde in tutto l'universo; ma, poichè ogni versetto ci fa sapere che si disperde lontano, dubito che la Prithivî e la Bhûmî non sia qui la terra, come le acque e le erbe, in cui l'anima del morto passa, debbono essere le acque e le erbe mitiche, ossia originariamente celesti e luminose. E tanto più ne dubito, poichè gli altri Inni funebri vedici consegnano alla terra ed al fuoco sotterraneo malefico il corpo, ma non mai l'anima, la quale invece viaggia, e viaggia in alto, e viaggia lontano, sulla vetta delle alte montagne, ove l'aurora si mostra, nella sfera luminosa del sole, a traverso le stelle, nel mondo lunare, ne' quattro punti cardinali. L'anima divien genio, e quel genio ama le forme più lievi, le sedi più elevate; se esso penetrasse subito nella terra opaca non potrebbe più muoversi, nè fare altri viaggi, secondo la sua mobile natura. Io m'induco pertanto a credere che anche in quest'inno funebre la Prithivî, la Bhûmî lontana che l'anima del morto visita, è una Prithivî, una Bhûmî celeste.
Io non so se queste prove bastino a persuadere della natura celeste della Prithivî vedica congiunta con Dyu o con Dyavâ; ma quello che io credo poter sicuramente affermare è, che, negl'Inni vedici, nulla c'induce ad ammettere la personificazione di una Dea Terra. Questa nozione venne più tardi, quando cioè la Prithivî celeste si dimenticò, ed alcune delle sue qualità furono attribuite alla terra propriamente detta. È importante questa distinzione, non solo perchè ogni verità ha la sua importanza per sè, ma ancora per interpretare le leggende del ciclo eroico indiano, ove gli Dei vedici hanno preso aspetto di eroi umani. A me non par dubbio che la Sîtâ sia una persona eroica dell'aurora mitica; ma chi lo nega, cercherà avvertire la impossibilità di un tale ravvicinamento, poichè l'Aurora è nel Rigveda la figlia del cielo (duhitar divas), mentre Sîtâ apparirebbe la figlia di Prithivî, ossia della terra. Ma quando noi avessimo potuto provare che esistette