Postremo pereunt imbres, ubi eos pater aether
In gremium matris terrai praecipitavit;
e nel secondo libro:
Denique coelesti sumus omnes semine oriundi:
Omnibus ille idem pater est, unde alma liquentis
Umoris guttas mater cum terra recepit,
Freta parit nitidas fruges arbustaque laeta
Et genus humanum.
Questi versi sono il miglior commento ch'io possa offrire agl'Inni vedici per ciò che spetta la parentela fra il cielo e la terra; il cielo è padre degli Dei, e fecondatore della terra, la quale, fecondata, alla sua volta diviene madre degli uomini; perciò Giove potè con ragione chiamarsi pater hominumque deumque. E noi non abbiamo punto dismessi quegli antichi appellativi, quando diciamo per celia allo scoppio del tuono che il padre Giove è in collera. In Piemonte e nel Veneto, Giove è divenuto zio (barba Giove), ma è un appellativo anche più carezzevole di padre. Il cielo fu sempre, sotto tutte le forme, cantato come un benefattore, quantunque in esso si producano pure forme tenebrose, demoniache ed infernali. Ma queste forme sono al cielo stesso avverse; esso le combatte come nemiche, e, nella vittoria sopra di esse, il Dio diviene eroico.
Ma il cielo che è, per noi mortali, e per molte figure celesti, padre, da chi fu creato esso stesso?
I poeti vedici ammettevano già un creatore del cielo e della Prithivî, e, nella loro ingenua ammirazione, cantavano che il Dio loro autore, poichè poteva solamente essere un Dio, aveva dovuto essere il più operoso operaio. Abbiamo detto che Indra abbraccia il giorno e la notte, il cielo diurno e il cielo notturno, e che è cantato come Divaspati, ossia come signore del cielo; esso è pure celebrato come genitore del Dyu, e genitore della Prithivî (Rigv., VI, 30; VIII, 36), genitore del padre e della madre ch'egli trasse dal proprio corpo (tanvah svâyâs): perciò essi sono considerati ciascuno per sè come una sola mezza parte del Dio Indra, il quale abbraccia tanto il Dyu quanto la Prithivî, che lo seguono, come il rotante carro segue il cavallo (Rigv., VIII, 6), altro indizio che ci conferma come si tratti qui d'una mobile figura di Prithivî celeste; il giorno e la notte seguono Indra, ossia Indra regge il cielo diurno e notturno. Quando Indra tona, i suoi due figli ne tremano. Ma perchè in Indra vi sono le qualità del Dio Pûshan e quelle del Dio Soma, così Dyu e Prithivî si raffigurano pure come figli di Soma e Pûshan: e perchè Mitra (o Savitar) e Varuna sono altre due forme corrispondenti alla duplice qualità diurna e notturna del Dio Indra, Dyu e Prithivî appaiono pure figli di Mitra e di Varuna, di cui il primo presiede al giorno, il secondo alla notte.
Indra stesso, come artefice per eccellenza, piglia il nome di Tvashtar, forma che quindi si distingue da lui per divenire l'artefice privilegiato degli Dei, per i quali crea ogni forma celeste, e però anche Dyu e Prithivî. L'espressione d'Indra creatore del cielo equivale dunque a quest'altra il cielo crea sè stesso, poichè, come vedremo, l'antico Indra non fu altro se non il cielo. Relativamente moderne consideriamo la tradizione cosmogonica dell'uovo d'oro (Hiranyagarbha), da cui, secondo un inno vedico (X, 121), sarebbero venuti fuori anche Dyu e Prithivî, e quasi brâhmanica quella, per cui dalla testa di Purusha, il maschio universale, sarebbe uscito Dyu, il cielo, dall'umbilico di Purusha l'aere intermedio, dai piedi di Purusha la Bhûmî, che in questo caso appare veramente la terra, dove, pertanto, discesi ci fermeremo, per risalire con miglior animo, nella prossima lettura, in cielo, a conoscere la poetica figlia di Dyu, la bellissima delle Dee, l'Aurora, la quale, come la forma più luminosa del cielo, diede pure origine ad alcuni de' miti più eleganti e più splendidi.
LETTURA TERZA. L'AURORA.
Gl'Inni vedici rappresentano a noi l'aurora sotto un aspetto molteplice; ora essa è l'aurora, fenomeno luminoso puramente fisico, quale noi lo osserviamo ancora; ora ci si mostra in forma di donna; ora in aspetto e virtù di vaga fanciulla o di eroina; ora in figura di dea. Questa molteplicità d'aspetti, ne' quali l'aurora vedica si manifesta a noi, anzi che mettere in confusione la nostra mente, la rischiara invece, dimostrandoci, in modo non meno evidente che poetico, in qual forma il fenomeno fisico abbia preso persona, e la persona sia diventata eroica e divina. Gl'Inni vedici all'aurora, quando si faccia eccezione per pochi frammenti, hanno tutti un carattere di veneranda antichità. Noi ci trasportiamo, per essi, ad una età patriarcale ed eroica, nella quale l'uomo ariano per la prima volta sembra espandere al di fuori di sè le sue giovani forze, con l'inno pastorale e con la epopea guerresca. Perciò essi hanno per noi un fascino irresistibile. Noi assistiamo al primo prorompere del poetico entusiasmo umano innanzi agli splendori della natura, varia ed una, potente e meravigliosa. Noi sentiamo, leggendo quegli inni, come, se l'anima nostra fosse più ingenua, recati innanzi allo spettacolo degli stessi fenomeni naturali, canteremmo ancora in quel modo. Gl'Inni vedici all'aurora non sono solamente note particolari poetiche del sentimento ariano, ma ancora più spesso espressione del sentimento universale che occupa l'uomo innanzi alla pompa del cielo mattutino e vespertino (e che si rinnova solenne al risorgere della primavera e al cadere dell'autunno).
A tutti noi è accaduto di osservare un bel tramonto di sole, il rosso di sera, che ci fa, dicesi, sperare il bel tempo pel giorno appresso: Rosso di sera buon tempo si spera. Ad alcuno di noi dev'esser pure accaduto di fantasticare sopra quel mobile quadro luminoso che ci presenta sul fine del giorno il cielo occidentale. Se potessimo considerare più spesso quel fenomeno, ci renderemmo più agevolmente ragione di molte forme della primitiva mitologia ariana. Ma, se molti di noi abbiamo contemplato un'aurora vespertina, pochi di noi, a motivo del nostro rinchiuso vivere cittadinesco, possiamo ricordare d'aver visto nascere l'alba e poi l'aurora del giorno, due momenti distinti nel tempo, che il mito ha pure espresso in singolari forme mitiche (prima il cielo d'Oriente albeggia, poi rosseggia). Io ebbi la ventura di contemplare la magnificenza di tali spettacoli sopra le vette alpine, e dall'impressione che essi fecero sopra di me, posso argomentare, in parte, la ragione che fece sugli altipiani dell'Asia centrale inneggiare con tanto ingenuo calore i primi pastori e guerrieri ariani. Per comprendere la natura, bisogna sentirla; per sentirla, bisogna accostarsi ad essa; gl'Inni vedici all'aurora sono l'espressione più fedele de' sentimenti, che la natura ha svegliato nel petto dei nostri più remoti e più immaginosi fratelli asiatici.
Ed ora osserviamo i diversi aspetti, ne' quali dicemmo apparirci descritta l'aurora presso gl'Inni vedici.
1. L'aurora come fenomeno fisico. I suoi nomi Ushas e Ushâ valgono la brillante; e così il maggior numero degli appellativi vedici dell'aurora vibhâvarî, bhâsvatî, çubhrâ, ahanâ, dyotanâ, çuc'î, çukrâ, ruçatî hanno il medesimo significato. Gli appellativi çvetyâ e arg'unî o la bianca, e ghr'itapratîkâ o l'imburrata, la simile al burro (ghritamduhânâ, ossia mungenti o stillanti burro son chiamate le aurore nell'inno 41º del VII libro del Rigveda), rappresentano particolarmente l'alba, il giorno che si schiarisce; oltre a questo, l'aurora è ancora chiamata supeçasa, ossia la di bella forma (così denominata