Letture sopra la mitologia vedica. Angelo De Gubernatis. Читать онлайн. Newlib. NEWLIB.NET

Автор: Angelo De Gubernatis
Издательство: Bookwire
Серия:
Жанр произведения: Языкознание
Год издания: 0
isbn: 4064066068608
Скачать книгу
inutile il dire, non è, quando si tratta solamente di vedere se quello che ora non è più, non abbia potuto essere una volta, e se, date le condizioni morali d'una volta, lo stesso effetto non si possa ancora riprodurre. Quando un erudito vi dice che la parola Befana è corrotta da Epifania, dice il vero; quando aggiunge che la voce Epifania vuol dire apparizione, vi dice cosa che probabilmente sapete già, ma che può essere innocentemente ripetuta; quando vi fa sapere che i Latini in que' giorni stessi, ne' quali i Cristiani celebrano l'arrivo dei Re, avevano cerimonie popolari consimili a quelle che rendono tumultuoso fra noi il giorno della Befana, vi invita ad un raffronto, al quale non avevate forse pensato; ma, anzi che aiutarvi a capire quello che la Befana sia, s'egli non aggiunge altro, v'imbroglia. L'erudito cattolico non vorrà che poniate in oblio come per Epifania si intenda l'apparizione della stella ai tre Re Magi; sebbene vi abbia già insegnato come anco i Greci avevano le loro Epifanie, feste solenni, nelle quali gli Dei si manifestavano ai mortali. L'erudito vi pone a riscontro fatti che, se non vengono spiegati da una ragione più profonda che non sia quella indicata dalla sola storia esterna, spesso meccanica, invece di dichiararsi a vicenda, a vicenda si confondono. Non è qui il luogo, in cui io possa domandare ai Cattolici perchè festeggino sul principio dell'anno l'arrivo de' Re Magi; essi mi risponderebbero che il loro dogma, il loro rito è infallibile, e che non giova indagare il perchè di un mistero che bisogna credere solamente perchè ci fu rivelato. Per quanto sia dunque grande la tentazione mia di lanciar l'indagine anche fuori del mondo ariano, quando in tal mondo si producono fenomeni conformi a quelli che ci occupano, nè solo vi si producono, ma ne escono per venire a confondersi coi nostri, rispetterò le credenze cattoliche, quando non ho un bisogno assoluto di distruggerle per la dimostrazione del vero. Ma io vorrei sapere dall'erudito il significato di quegli usi pagani che perdurano nella festa cristiana dell'Epifania. Essi diranno probabilmente: la Chiesa cristiana non si curò di rimuovere costumanze che potevano invece, mantenute, dare alle nuove credenze una base antica. La verità è ora che le credenze cristiane importate sul terreno latino sono quasi partite, dove le tradizioni pagane vi si conservano tenaci. Ma perchè questa grande tenacità? e perchè i Latini festeggiavano poi in tal forma singolare i primi giorni dell'anno? Qualche erudito fa bene notare la corrispondenza tra certe feste religiose e le vicende agrarie e celesti dell'anno. Ma egli si crederebbe troppo temerario, quando tentasse di ricercare nelle feste religiose i caratteri simbolici di quelle vicende. O quando ardisse tanto, si limiterebbe al mondo romano, e col mondo romano s'ingegnerebbe di spiegare ogni rito singolare. Chè, se gli accadesse di incontrare un uso medesimo in Grecia, preparerebbe una dissertazione per ricercare se i Greci l'abbiano tolto dai Latini, o non più tosto questi da quelli. Quanto ai Germani, agli Slavi, agl'Indiani, se l'erudito viene a sapere che essi ebbero od hanno usi simili ai nostri, si contenterà di trovar curiosa tale somiglianza, ma si guarderà bene di domandarne il perchè o d'ammettere che un perchè vi sia. Ogni popolo d'eruditi in Grecia, in Italia ed altrove ha incominciato col dichiarare autoctona la nazione, alla quale esso apparteneva, sebbene si rispettasse l'autorità della Bibbia che sostiene una genesi diversa. Ora non siamo più a questo punto; ma troppi di noi, quando, nello studio delle antichità italiche, ci troviamo confusi innanzi a costumanze, istituzioni, tradizioni, monumenti non conformi alle nozioni che ci rese famigliari il mondo latino, le riferiamo a quella comoda razza pelasgica, inventata, come sembra, perchè desse ospitalità a tutti que' popoli che la etnologia non ha ancora saputo determinare e classificare. E con questa preoccupazione continua, eccessiva, de' caratteri etnici, trascuriamo lo studio di quella unità più larga e potente ch'è l'uomo nell'immediato contatto con la natura. Ci ribelliamo all'idea di un uomo primitivo bruto e brutale, o ce ne consoliamo, pensando che nella scala degli esseri animati l'uomo è il più intelligente. Siamo disposti a credere, perchè non possiamo impugnarla, all'eredità del sangue; e incominciamo ad ammettere, se non ancora a proclamare, che si trasmette col sangue una parte dell'umano carattere. Ma che faceva ella la intelligenza dell'uomo primitivo, quando si trovava ancora quasi priva di idee, al contatto della viva natura? Che poteva essa altro fare se non sopra la natura vivente creare idee vitali? E i miti sono la figura di quelle idee elementari, le quali s'improntarono con più forte impressione nella nostra razza, perchè la razza nostra era la osservatrice dotata di fibre più delicate e sensibili, e più atta pertanto a comunicare come a ricevere le impressioni. Liberiamoci da quel cumulo immenso di idee acquisite, per convivenza sociale, in parecchie migliaia di secoli; dimentichiamo, se ci è possibile, le impressioni che il lungo contatto degli uomini lasciò in noi, e ritorniamo vergini innanzi alla natura. Ritorneremo forse ancora a creare i miti, o, per lo meno, li conserveremo meglio, poichè ne avremo un sentimento più vivo. Perciò il popolo che è ancora più presso di noi alla natura conserva meglio le sue credenze superstiziose, che noi deridiamo perchè le abbiamo perdute. Molte anzi di tali credenze superstiziose sono ancora miti trasparenti.

      

      E per miti trasparenti intendo quelli che sotto la figura immaginosa del linguaggio lasciano apparire evidente il fenomeno naturale. Crede il popolo della campagna toscana che la rugiada raccolta prima che si levi il sole, alla vigilia di San Giovanni, abbia virtù di conservare la vista. Noi sorridiamo alla credula ignoranza del volgo, dove dovremmo forse ammirarne soltanto la poesia. La festa di San Giovanni sappiam bene come cada sopra uno de' tre giorni del solstizio estivo, ossia de' tre giorni più lunghi, de' tre giorni più luminosi dell'anno. Se con la rugiada del giorno più luminoso si lavino gli occhi, noi vedremo più luce, noi vedremo meglio. Che cosa di più semplice, di più naturale, di più poetico che questa forma d'augurio? Eppure il volgo degli ignoranti, che mantiene la poetica usanza, ha torto, ed il nostro volgo erudito, che la disprezza, è il gran savio, al cui giudicio dobbiamo inchinarci riverenti. E pure non intenderemo mai la mitologia e non avremo però diritto di deriderla, se non intenderemo prima il linguaggio ed il costume popolare. Il popolo è l'eterno e credulo fanciullo che dopo avere creato i miti, se li conserva. I Greci, il popolo più naturale che si sia spiegato nella vita storica, li fecero immortali nelle loro opere d'arte; i Latini, popolo pratico per eccellenza, li adoperarono come elementi della loro propria costituzione; noi li ravviviamo nella poesia del nostro linguaggio e del nostro costume. Il mito ha penetrato l'essere ariano; e, dove pare sterile e rozzo segno di un morto passato, è invece ancora potente elemento creativo. Dove il mito non passa, non passa quasi la poesia, inteso il mito nel senso suo più lato, ossia una figura immaginosa ed animata di un fenomeno naturale. Quando un poeta paragona la sua fantasia ad un cavallo indomito e selvaggio, crea un mito in sè; quando egli paragona il sole aurato ad un cavallo d'oro, crea il mito nella natura esteriore. Nell'impeto della creazione ei non dice: il cavallo è rapido corridore sopra la terra, il sole è rapido corridore, il sole è rapido come il cavallo; dice invece, con più brevità, il sole-cavallo, od anche, guardando il cielo, semplicemente: il cavallo. La prima e più general forma del mito è dunque una similitudine fra una cosa lontana, o men nota, ed una cosa più vicina, e più nota. Certo, l'uomo dovette conoscere il cavallo, il cane, il bove, il serpente sopra la terra prima di collocarlo nel cielo. Ma il mito elementare nasce soltanto da questo trasporto di figure da un mondo prossimo ad un mondo lontano. A questo scambio d'immagini fra la terra ed il cielo potè pure concorrere, per molta parte, l'equivoco del linguaggio. In sanscrito, il cavallo è chiamato açva. Etimologicamente, la parola dovrebbe valere il penetrante, il rapido. Diminuita la coscienza etimologica del linguaggio, e dai qualificativi formatisi gli appellativi, molti rapidi divennero cavalli. E poichè açva, in origine, non solo significò probabilmente, come aggettivo, rapido, ma forse pure come neutro, la rapidità,[1] l'açvin che dovea originariamente esprimere il fornito di rapidità, ossia il rapido, poichè açva riuscì solamente più il cavallo, l'açvin diveniva il cavaliere. E poichè nel cielo vi sono due corridori, il sole e la luna, dei quali il primo è posto in relazione col crepuscolo del mattino, il secondo con quello della sera, s'immaginarono i due cavalieri, gli Açvinâu, i quali negli Inni vedici sono celebrati per avere vinta la corsa. Il crepuscolo prenunzia il giorno e la notte; è perciò il primo ad arrivare al segno, a toccare il limite del cielo, a vincere la corsa. L'equivoco del linguaggio può aver qui non solo giovato a creare il mito, ma ancora a distenderlo, con l'immagine che si produsse del cavaliere, sopra quella preesistente, come pare, del semplice corridore, dell'açva.

      La mitologia senza lo studio delle lingue antiche male si spiega; e non è troppo grande ardimento il soggiungere che essa