Ma se i proverbii mitici sono pochi, que' pochi non vogliono essere negletti, e meritano che sopra di essi si raccolga l'attenzione degli studiosi. Nè chiamando mitico un proverbio, presumo poi necessariamente che la sua origine sia sempre asiatica od almeno antichissima. Poichè io non nego punto la possibilità che qualche nuova forma mitica si manifesti ancora di tempo in tempo sporadicamente nel linguaggio popolare. Quando il nostro diligente investigatore delle parlate toscane, il professor Giuliani, ci fa sapere che un contadino piemontese ed un montanino toscano, per dirgli ch'essi contentavansi di bere acqua pura, chiamarono l'acqua vin di nugoli, mi fa meglio comprendere la nuvola indiana paragonata ad un mostro-barile; dal qual barile poi la tradizione popolare leggendaria fa, per una inavvertenza dello scimunito, scorrere vino o birra per la cantina, che la mamma improvvida gli ha data con la casa in custodia. Io non suppongo, senza dubbio, alcuna serie progressiva e continua che congiunga il vin de' nugoli toscano e piemontese con la nuvola-barile indiana; ma, dalla somiglianza delle immagini che raffronto, comprendo meglio la natura dei miti che mi studio d'interpretare. Io ho detto che la nuvola è paragonata ad un mostro, e che il mostro è talora rappresentato in forma di barile. Il mostro è generalmente, e, sovra ogni cosa, avaro. Domanderò dunque ancora se sia troppo strano che io abbia tosto ripensato al mito, quando, al cader delle prime larghe goccie di pioggia, intesi un giorno una popolana perugina uscire in questo proverbio: ohe! piove! l'avaro crepa. Che ha da far l'avaro con la pioggia, quando l'avaro non sia qui la nuvola che, crepando, lascia cadere la pioggia, come alla morte del mostro vedico Ahi, lo stringitore, l'avaro dragone, si scatenano le acque? Io potrei moltiplicare simili esempii; ma spero che questi bastino a persuadervi come il primo campo mitico sia il cielo, le prime figure mitiche siano i fenomeni celesti, le prime informatrici de' miti siano le similitudini del linguaggio popolare. Messi d'accordo su questo punto che mi pare essenziale, sarà più agevole a me l'imprendere, a voi il seguire la esplorazione nell'Olimpo vedico, che verrò tentando. La miniera è assai ricca; ed io non la esaurirò punto; ma sarò contento se alcuno di voi al fine della nostra peregrinazione potrà persuadersi che anche i miti sono stati una realtà, anzi l'unica realtà importante e caratteristica, per cui la razza indo-europea s'inalzò alla vita storica, con un linguaggio potente; poichè, per dirvi, oggi, l'ultima mia eresia, io credo capaci d'ideale, ossia potenti di progresso que' soli popoli che hanno un senso vivo della realtà, la quale è per sè tutta poetica e vivificante, quando si comprenda nella piena e perfetta armonia che governa la vita, quando nel ricordare il passato l'uomo viva del presente e prepari pure l'avvenire, secondando così la natura che non fa altro se non conservarsi svolgendosi ed ampliandosi. L'uomo antico ha spiegata ne' suoi miti celesti la poesia ch'egli avea chiusa come germe in sè; l'uomo moderno deve entrare in gara generosa con gli Dei suscitati dalla immaginazione poetica de' nostri avi, e, nuovo e stupendo artefice, mirare a produrre il divino nella vita.
Angelo De Gubernatis.
LETTURA PRIMA. IL DIO E GLI DEI.
Il primo problema che ci si affaccia nello studio della mitologia vedica è questo: fu prima il Dio o furono prima gli Dei? Invece di rispondere, potremmo proseguire a rivolgerci altri problemi: fu prima il tutto o furono prima le parti? fu prima l'astratto o fu prima il concreto? fu prima il sovrannaturale o fu prima il naturale? Voi comprendete che il porsi innanzi tali questioni è quasi un risolverle, poichè il tutto suppone le parti, l'astratto il concreto, il sovrannaturale il naturale. Come non vi è re senza popolo, così non vi è principio senza fondamento, non vi è legge senza materia ch'essa possa regolare, non vi è il superlativo senza i diminutivi, non vi è il Dio ottimo, massimo, senza gli Dei minimi che concorrano a farlo tale. Nel nostro studio, per ritrovare il Dio uno, dovremo dunque incominciare a studiarne gli elementi divini, ossia gli Dei. Ma qui alcun filosofo potrebbe credere, con un po' d'arguzia, di sorprenderci in contradizione, avvertendo come logicamente, e secondo la nostra propria dottrina, i plurali sono collettivi, e ogni collettivo, ogni plurale, suppone il singolare; il che si può accordare volentieri, ma chiedendo la facoltà di esaminare la natura propria di questo singolare, che moltiplicato produce la pluralità degli Dei. Per ritrovare il valore intimo d'un nome, bisogna farne la storia, indagarne il suo primo valore qualificativo, ed estrarne la radice fondamentale. Per nostra fortuna, la storia vedica della parola che studiamo è assai trasparente. Il Dio, nella lingua vedica, ossia nella lingua ariana, della quale siano pervenuti a noi più antichi e più autentici documenti, è chiamato devas. Ognuno di voi saprebbe trovare le analogie tra questa voce e la voce con cui si esprime ora il nome dell'Essere supremo in parecchie lingue europee. Ma molti di voi potrebbero pure riconoscere, l'identità radicale di deus e di divus; e sapendo come il divus o divum, o dium de' Latini valga semplicemente il cielo, il cielo aperto, il cielo luminoso, e quello che i Francesi chiamano la belle étoile, avrebbe da questa sicura nozione un primo avviso per ricercare nel Dio nient'altro che il luminoso, ossia il cielo. Noi figuriamo il Dio splendido, eterno, infinito; ma il cielo è il solo che sia per noi eternamente splendido ed infinito. Quando il sole s'alza, abbiamo l'aria luminosa, ossia il dies, il diurnus, il giorno, il tempo luminoso. Quando l'aria s'imbruna e la terra si fa scura, occupata dalla notte, vi è pur sempre qualche cosa che risplende in alto, che ha un colore, che scintilla, che ha vita; il cielo appare sempre in veste luminosa, il luminoso è eterno, il Dio è immortale. Perciò, come canta Ovidio, il Nume, attraendo l'uomo a sè:
Os homini sublime dedit, coelumque tueri
Jussit.
La lingua latina ha conservato nelle voci divum, dium, il primo significato della parola deus; ma ha perduto il verbo che esprimeva l'idea elementare di quella parola, ricorrendo ad altre radici per rappresentarlo. Le lingue slave hanno conservato quel verbo, ma modificandone alquanto il significato; divo in russo è la meraviglia, divitj vale meravigliare. La lingua sanscrita ha vivacissima, mobile e flessibile nella coniugazione come nella declinazione l'antica radice, dalla quale si svolse la parola devas: le radici dî, dîp, dîv, div, dev, significano tutte splendere, brillare, abbagliare. Dalla radice div, splendere, abbiamo poi il nome mascolino e femminino div (dyu, dyo, dyâu), il neutro divam, il mascolino divasas, il neutro divasam, che valgono cielo e giorno, come lo splendido (cfr. il mascol. e neutro dinas, il neutro dinam, che valgono giorno), i femminini dyut, dyuti, i neutri dyumnam, dyotanam, splendore, e parecchi altri derivati contenenti tutti l'idea medesima. Da div, che vale cielo come luminoso, proviene nella lingua vedica l'aggettivo deva, ossia celeste, ossia propriamente appartenente al luminoso, e quindi luminoso esso stesso. Dall'aggettivo deva, celeste, si formò quindi il sostantivo mascolino devas, il celeste, il Dio. È dunque evidente che il Dio primitivo fu un essere celeste, e che conviene perciò ricercarlo solamente nel cielo. Tutti gli argomenti che si possano portare contro la nostra interpretazione de' miti, non valgono a distruggere questa verità fondamentale: il Dio primitivo fu concepito soltanto come un essere celeste; anzi, fu chiamato il celeste. E poichè il cielo è un campo vasto, animato da molti esseri, da molti aspetti diversi, da molti fenomeni singolari, così vi sono molti celesti, ossia molti Dei, senza alcuna necessità assoluta che vi sia un solo celeste, un celeste sovrano, quando questo celeste per eccellenza non sia il cielo stesso. E noi vedremo, per l'appunto come, nella mitologia vedica, il celeste principale, il Dio per eccellenza sia divenuto il cielo medesimo, col sole e la luna che si suppongono suoi reggitori nel giorno e nella notte. Ma dall'essere, come abbiamo veduto, il devas, in origine, non un sostantivo, ma un semplice aggettivo,