Novelle Napolitane. Salvatore Di Giacomo. Читать онлайн. Newlib. NEWLIB.NET

Автор: Salvatore Di Giacomo
Издательство: Bookwire
Серия:
Жанр произведения: Языкознание
Год издания: 0
isbn: 4064066069001
Скачать книгу

      Pioveva sempre, ma la pioggia non batteva ai vetri con lo stesso ritmo dolce delle lunghe serate in famiglia, nè alcun lume nella stanzuccia poteva mostrargli la faccia pallida e sorridente della madre e in fondo, nella penombra, il lettuccio della piccola sorella dormente....

      Così, in quella triste serata umida e tetra, in quello scompiglio nervoso che infuriava sul suo morale tormentandogli il fisico a scosse dolorose, egli solo, solo nella sua amarezza incosciente, in quella oscurità fitta della cameretta si mise a urlare come un pazzo.

       Indice

      Quanto se n'avessero cacciato in corpo, dalle dieci di sera ch'erano arrivati sino alla mezzanotte vicina, lo sapeva soltanto il garzone del vinaio che all'ultimo, appena adocchiò don Michele che metteva la mano in saccoccia, s'accostò alla tavola come a volerci passare sopra lo strofinaccio.

      — Quanto si paga? — disse don Michele, cominciando a contare i soldi.

      Il garzone strofinando lo straccio sulle chiazze di vino si faceva il conto a memoria. E dopo un momento, senza levar gli occhi, rispose:

      — Tanto; quarantotto soldi e la vostra buona grazia.

      Vi fu un silenzio. L'altro rimaneva stupefatto. Aveva messo sulla tavola il mucchietto dei soldi e contemplava il garzone con gli occhi lagrimosi.

      — Quarantotto soldi.... — mormorò, — quarantotto soldi!... Cioè.... fanno due lire....

      — E otto soldi, — disse il garzone, — ci ho messo anche i sedani che avete mangiato.

      — È troppo giusto, — sospirò don Michele.

      Si mise a contar daccapo. Ora si frugava per trovar due soldi che mancavano. Rovistava nelle saccocce del panciotto, rovesciandone infuori la fodera, col petto stretto al taglio della tavola. Miche di pane secco, pezzettini di tabacco, delle medagline di rame, un mozziconcello di matita gli cadevano innanzi senza che i soldi ne venissero fuori. Lui, cercando ancora, s'impazientiva, con le mani tremanti che non avevano forza nelle dita.

      — Dove li ho messi? — borbottava fra sè e sè, guardando, con le labbra strette, ne' travicelli del soffitto come a volerli interrogare.

      Dal banco, accarezzandosi il mento con la mano rossa ed enfiata, il vinaio ci pigliava gusto, ammiccando al garzone che ronzava con lo straccio fra mani e tirava, per ridere, a far scomparire di su la tavola il mucchietto de' soldi.

      — Guardate, — diceva don Michele, volgendosi attorno, — questa è nuova. Uno da un momento all'altro non si trova più il denaro addosso!...

      Così dovette ridursi a svegliare il compagno che dormiva come se niente fosse, con le mani aperte sulle cosce e il naso fra lo sparato del soprabito.

      — Eh? — fece quello, provando ad acconciarsi sulla panchetta. — Che è successo? Sognavo ch'era successo il tremuoto...

      Vi fu una risata fra tutti. Lui guardava in giro, un po' incollerito, un po' mortificato. Lentamente, reggendosi allo spigolo della tavola, si chinò a raccattare il cappello che gli era caduto per terra e ci aveva messo un piede sopra come se fosse un cencio. Senza pensare a ripulirlo lo guardò a lungo con una attenzione stupida, girandolo da ogni verso. Poi se lo mise sul capo e disse:

      — Ce ne andiamo?

      — Un momento, — rispose don Michele, — qui mancano due soldi.

      L'altro non capiva; s'era levato a stento, afferrandosi alla tavola con una mano, armeggiando con l'altra a casaccio come se cercasse qualcosa, a rischio di cavar un occhio alla bimba del vinaio che gli era venuta a ridere accosto. Poi ricadde a sedere e dette in un gran sospirone, allungandosi traverso.

      — Sentite, compare, — ribatteva don Michele con la voce smozzicata, — ci vogliono due soldi.... Li avete due soldi.... eh?

      — Che cosa? — borbottava l'altro senza muoversi.

      — Due soldi.... per aggiustare il conto del vino.... E poi ce ne andiamo....

      Il poveraccio gli fece cenno che gli frugasse addosso. Smaniava pel vino che gli saliva alla gola e non aveva forza di movere un dito. Alla fine, come Dio volle, don Michele riuscì a pigliargli quattro soldi dalla saccoccia dei calzoni, sudando come un cavallo. In quell'afa, nel romorìo di voci di cui lo stordiva l'unità chiassona e continua, il vino gli montava al capo co' suoi fumi caldi e tremolanti. La cantina gli pareva soffocante, senz'aria, troppo illuminata e troppo irritante. Gli occhi gli s'imbambolavano, a ogni momento se li asciugava con la pezzuola, che su le gote accese gli metteva un dolce senso di frescura. L'altro, un cocchiere da nolo, che a prima sera avea messo dentro cavallo e carrozza, non trovava pace, ora che il sonno gli era stato spezzato così d'un subito.

      — Sentite a me, — consigliava don Michele, — andiamocene a casa.

      — Ora? — balbettò il cocchiere, — ma è presto.

      — Scherzate? È mezzanotte.... Sì, è presto!... È mezzanotte, — diceva don Michele, facendo per reggersi in piedi. — E se non volete venire — minacciò, perdendo la pazienza — me ne vado solo e buonanotte.

      Ma fuori, sotto alla porta aspettò che uscisse, appoggiandosi con le spalle allo stipite. L'altro, dopo un momento, venne fuori anche lui, aiutato dal garzone che se lo menava innanzi a spintoni puntandogli una mano fra le spalle.

      — Don.... Michele!... — chiamò il cocchiere.

      — Son qua, — disse lui, mentre nell'aria fresca gli battevano i denti e dei brividi gli salivano pel corpo, — mettetevi a braccetto.

      Traballando gli prese il braccio e se lo ficcò a forza sotto al suo, serrandolo come meglio poteva fare. Il cocchiere, col cappello che gli era cascato su gli occhi, barcollava ch'era un piacere.

      — Per dove.... andiamo? — mormorò.

      — Di qua, sempre diritto...

      Pigliarono per Foria, sfregandosi ai muri come gli asini. A ogni passo falso andavano a battere nelle porte chiuse delle botteghe. Innanzi a loro la via larga s'apriva, allungandosi a perdita di vista, biancheggiando sotto alla luce giallastra de' fanali.

      Era stato lunedì del carnevale e la gente in tutta quella giornata s'era sbizzarrita a buttarsi in faccia il gesso, come se non avesse fatto altro in tutta la vita. Gran bella porcheria! Ora in quella polveraccia bianca, che appena la si smoveva faceva venir la tosse a stianti, s'affondava sino alla caviglia come sulla via nuova. Alle botteghe le insegne erano screziate di bianco e pareva che di sopra ci fosse cascata su a goccioli la calce d'una imbiancatura alla facciata del palazzo. Qua e là, quando meno ci pensavano, a' due compari si parava innanzi un mucchio di polvere e di spazzatura che li sviava, spingendoli l'uno addosso all'altro, nello stringersi che facevano.

      Il cocchiere, cotto come un pulcino, s'era messo a parlar da solo e diceva un mondo di scioccherie, guardando per terra. Di colpo, trascinandosi dietro don Michele, si chinò e prese una manata di gesso.

      — I coriandoli!... — borbottò con voce rauca. — Oggi è carnovale.... Ah! caspita!

      — Nossignore, — protestava don Michele, che s'accorse della mala parata. — È finito carnovale.... È finito.

      — Oggi.... è carnovale, — rideva il cocchiere, barcollando.

      E d'un subito gli sgusciò di sotto al braccio, levando il pugno. Don Michele fu colpito in faccia, alla mascella. Il gesso gli scese giù pel colletto nella camicia, lasciandogli sopra la spalla una gran macchia bianca.

      Il cocchiere rideva a rantoli. S'era accoccolato in mezzo al marciapiedi con le mani sui ginocchi, e si godeva la bravata.

      — Questa non si fa, — disse don Michele passando sulla faccia la manica del soprabito, — lasciate stare il gesso che fa male agli occhi....

      L'altro,