Novelle Napolitane. Salvatore Di Giacomo. Читать онлайн. Newlib. NEWLIB.NET

Автор: Salvatore Di Giacomo
Издательство: Bookwire
Серия:
Жанр произведения: Языкознание
Год издания: 0
isbn: 4064066069001
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della Vergine. Era una pittura su rame. Il colore si staccava, carbonizzato.

      — È un peccato, — mormorava il prete, — e ogni tanto ho da sentirmi i pistolotti della commissione pe' monumenti.

      Nella desolazione delle sue rovine, deserta e fredda, la chiesa invecchiava in un silenzio di morte. Era una chiesa gotica, sulla quale tutte le epoche avevano infierito, e più di tutte il seicento. I finestroni archiacuti erano ridotti a sagome inestetiche, gravati di fregi, inquadrati da cornici di stucco, da fronzoli e rosoni. Il medio evo, sotto la sgraziata sovrapposizione, fremeva; la pietra grigia pareva che, negli spasimi dell'insofferenza sua, volesse liberarsi dal calcinaccio odioso. Lo aveva fesso; serpeggiavano qua e là spaccature profonde e nere. L'invasione non aveva nulla risparmiato; sotto all'intonaco sparivano le fini dorature d'un capitello, si affollavano d'angioli ricciuti e ben pasciuti le vôlte a crociera delle cappelle e, scambio delle severe lastre di marmo, sul pavimento correvano file disordinate di mattoncelli. Della tomba del fondatore della chiesa i francesi del novantanove avevano fatto abbeveratoio di cavalli: quegli stessi francesi che ad una cappelluccia della Madonna strapparono pur un trofeo d'azze e di barbute, memoria di Lepanto. Il sarcofago, di cui penetrava nel muro una parte, attorno al coverchio aveva una iscrizione in lettere gotiche, e, a tratti, le lettere sparivano, poichè la polvere secolare ne aveva colmati i solchi.

      Dietro il maggiore altare la morte era spaventosa. Si sfasciava il coro, si coprivano di polvere gli stalli deserti, e il legno si torceva nell'umidità, convulsionato come in riso doloroso, mostrando per lo spaccato chiodi ritorti e brani di vecchio legno.

      Lungamente, come il rettore lo aveva lasciato libero, il novello scaccino rimase in contemplazione del coro, conquistato dalla varietà strana di tante minute pitture, che sopra ogni stallo, nell'inquadratura a rabeschi, ricordavano santi, o patriarchi, o assunzioni e martirii di vergini. Su quel del priore un barbuto Simeone circoncideva un piccolo Gesù, reggendolo in una grossissima mano, con, a lato, la Vergine e il falegname Giuseppe, dalla bianca barba spiovente. Il cinquecento avea profusa tutta la sua erudizione architettonica in queste fredde pitture, di cui i tratti avevano durezza d'incisione e austero segno ingenuo. Colonnine ed arcate a sfondo interminabile, peristilii eleganti, fregi a serpi e ghirigori; non uno sfumo, nessun'ombra. Eran monaci ossuti dalla deforme testa rasa sulla quale, a uno a uno, si potevano contare i capelli aggiustati in aureola; monaci dal collo taurino, dagli occhi astratti, le dita curiosamente sbucanti dall'intreccio delle mani in preghiera, le unghie accuratamente segnate dal paziente artista. Erano martiri beatificati, dalle lunghe facce piagnucolose, dalle vestimenta orlate di stelle; erano pargoli nudi che avevano piedi d'uomini fatti.

      Le pitture diventavano rosse, si staccavano dal legno, e delle lunghe righe di puntini neri segnavano il passaggio dei tarli. Cominciava il banchetto de' tarli a sera e, nel grave silenzio, pareva che un'unghia umana lievemente grattasse sul legno.

      Lo scaccino si dimenticava, assorto. Di tratto in tratto, all'altro capo della chiesa, cadeva un pezzetto di travicello roso, un frantumo, dall'organo sconnesso, e una lieve nube di polvere si diffondeva intorno. Pei finestroni sconquassati piovevano ombre fitte, che più s'addensavano. Era l'ora in cui la chiesa si concedeva all'oscurità.

      Lo scaccino rientrò in sagrestia. Il rettore si spazzolava, chiacchierando con un altro prete del quale un'ombrella enorme gocciolava sul pavimento.

      — Manco male — diceva il rettore — che siete arrivato voi, don Enrico. È il Signore che vi manda.

      — È stata un'ispirazione, rettore. Pareva che una voce mi dicesse per la via: Va, chè il rettore non ha ombrella.

      Rise, mostrando una sconcia fila di denti giallastri. E levò gli occhi al finestrone:

      — Piove a rovesci.

      Il rettore mormorò:

      — Ah! Signore! Sia fatta la tua volontà!

      Poi, come lo scaccino aspettava, impiedi:

      — Siamo intesi, tu, non è vero?

      — Sì, signor rettore.

      — Ora vattene, ora non c'è da far nulla. T'insegno a chiuder la porta. Domani bisogna trovarsi in chiesa alle sei....

      Uscirono. Lo scaccino, accomiatandosi, baciò la mano al rettore, e rimase ad aspettare che la pioggia finisse, addossato a una bottega chiusa, mentre il prete si cacciava sotto l'immensa ombrella del suo amico e s'allontanava, galoppando nelle pozzanghere.

       Indice

      Questo piccolo uomo si chiamava Gabriele. Ma intorno al bel nome angelico era tutta una oscurità. Vagamente il ricordo della fanciullezza s'affacciava, ne' lunghi intermezzi di silenzio dell'anima che, di tanto in tanto, conquistava la inutile creatura, prima di metterla nella malinconica imprecisione del passato. Nel passato era un freddo di persone e di cose, un mistero, un muto dolore continuo. La scuola infantile senza sole, senza amicizie infantili, senza premii; nel verno, una stanza paurosa in un palazzo buio, un cattivo odore insistente, da per tutto e le scarpe fradice nelle quali i poveri piedini gelavano. Poi la miseria, la triste miseria senza risorse e una peregrinazione per case che lui non sapeva ed ove la madre scompariva, lasciandolo, aspettante, nel cortile. Ella si chiamava Cristina. Or, invecchiata rapidamente, pallida, debole, aveva soltanto conservato nella orribile caduta il fosco lampo di due occhi pieni d'anima e due labbra sottili e brevi che ancora sapevano maledire. Aveva fatta una gran passione ed era stata abbandonata col figliuolo. Rubata a due poveri vecchi, de' quali codesta infamia aveva affrettato la morte, ella avventava lo sguardo in tanto orrore di cose, meditando, col gomito sulla tavola zoppa, col mento nella mano, sulla fatalità di questa uccisione lenta e sicura, la quale sterminava tutta una famiglia. Un sol uomo aveva ferito, ed era scomparso. Mentre i colpiti scendevano un dopo l'altro nella tomba, ella, che pur ne faceva la strada, lo malediva, profondamente.

      A Gabriele serpeva nelle vene il sangue malato e fremente della madre. Nelle collere prorompenti contro le nervose volontà di quella donna egli si mordeva le braccia e urlava, gli occhi pieni di lacrime, le gote accese da tutto quel po' di sangue che gli restava. E Cristina, cupa, lo contemplava, dal letto ove il suo male l'aveva inchiodata, il male orribile della famiglia, implacabile.

      Il rettore lo avea preso per fargli custodire la chiesa; e da scaccino Gabriele era diventato custode, a poco a poco, perchè il prete era avaro e le entrate impoverite non bastavano a mantenere due persone per due ufficii diversi. Gabriele non si rifiutò. Soltanto chiese un po' di denaro avanti, pei bisogni della famiglia. Il rettore rispose che non poteva.

      Il sagrifizio del poveretto cominciò in una piovosa mattina di gennaio. Da prima la chiesa, piena di calma e di silenzio, gli mise una strana pace nell'anima. Da un capo all'altro la visitò curiosamente, perdendosi in laberinti di corridoi scuri e freddi ove non era mai penetrato il lume del sole. All'imbrunire, quand'essa rimaneva deserta dei pochi devoti che ogni giorno venivano a pigliarvi un'infreddatura, egli passava in sagrestia e vi metteva in assetto le vesti sacre, strofinando lo straccetto sulle scansie macchiate d'umido e di polvere, e spazzolava i berretti, e passava in rivista le rotonde scatoline delle ostie, tentato da alcuni superstiti pezzettini di esse. Di tanto in tanto riposava, addossato allo stipo, le labbra chiuse, la faccia anemica tutta compresa di quell'aria scema che hanno i bevitori d'assenzio, in meditazione di nulla. Poi si metteva a sedere, stanco, nella vecchia seggiola del rettore, dal cuoio nero tutto consumato che di sotto agli strappi mostrava la imbottitura di stoppa. E vi rimaneva assorto, mentre dalla vicina stradicciuola, sulla quale davano i finestroni, il cadenzato tintinnio del ferro, che un magnano batteva sull'incudine, lo cullava con un tremolio di vibrazioni morenti. Non uno strepito, a volte, non un soffio turbavano l'indefinibile silenzio del luogo. Egli si raggomitolava nella seggiola a bracciuoli, figgeva lo sguardo sulla porticella schiusa che metteva in chiesa e che, per la fessura, dava passaggio a un po' di luce. Una bianca striscia s'allungava sul pavimento della sagrestia, già perduto nell'ombra, mentre annerivano nella notte, sulle pallide pareti, i grandi armadii in giro. L'ultima luce penetrava dal finestrone di faccia a