Ella rimaneva lì, rimpetto a lui, guardandolo curiosamente da capo a piedi, con occhiate sorprese. Lui, non sapendo dir altro, con gli occhi a terra e aspettando che se ne andasse.
— Hai capito? — fece dopo un momento di silenzio durante il quale subì un esame lungo e noioso, — non è niente. Di' a Nannina che abbia un altro po' di pazienza.
Nunzia fece spallucce ed uscì borbottando. Era jettatura, via; l'altro giorno tre piatti rotti e il gatto scappato; oggi, l'onomastico di Nannina, quest'altro guaio! Va bene; aspetterebbero.
Lui rimase solo, in una mezza oscurità che metteva nella stanza la persiana calata innanzi al balcone. Si acconciò sul letto e provò a chiuder gli occhi. Stette così due o tre minuti, colle braccia stese, la bocca aperta, soffiando pel caldo che l'opprimeva. Nella penombra, la camera taceva; un moscone con un ronzio importuno sbatteva sui vetri.
Dalla strada con un'eco sorda arrivava il rumore delle carrozze e sotto la volta del balcone, che il sole imbiancava, passavano le loro grandi ombre rapide. Si mise a guardarle, sbadigliando. Intanto gli tornava il pungolo di quella gran mala sorte di Rinaldo, caduto così barbaramente fra le mani di que' rinnegati.
— Scapperà? — pensava, mettendosi a sedere in mezzo al letto, con le mani sui ginocchi, mentre alcune grosse goccie di sudore gli scorrevano per la faccia.
Una voce gli mormorava: è scappato; e un'altra: non ancora. Tutte e due lo tormentavano; stette un pezzo dubbioso, provando gli stimoli e le reticenze di chi si vuol decidere e non sa. A un tratto, senza poter trattenersi, si buttò giù dal letto, si mise le scarpe, infilò la giacchetta, cacciò in tasca il cappello molle e, in punta di piedi, uscì. Si fermò nell'anticamera, origliando.
Dalla stanza vicina veniva fuori la voce della siè Nunzia che raccontava un fatterello ai bambini, per intrattenerli. Delle domande di curiosità puerile la interrompevano.
Don Peppe colpì il momento. Aprì la porta di strada con tutte le precauzioni di un ladro, se la tirò dietro senza chiuderla, avendo cura di far combaciare le commessure. Si fermò un poco a sentir se dentro succedesse qualcosa, poi infilò il vicoletto, correndo, senza più voltarsi indietro.
La strada tutta soleggiata, senza un angolo d'ombra, in una immensa luce calda, era quasi deserta; nessuno ai balconi socchiusi, riparati dalle lunghe persianelle verdi; nessuno fuori le botteghe. Qualche vettura da nolo s'era arrestata a uno sbocco di via; il cocchiere, accovacciato dentro, sotto al soffietto alzato, sonnecchiava; il ronzino sfiaccolato, che le punture acute delle mosche irritavano, scalpitava sul selciato.
Tore il cantastorie abitava in un palazzetto vecchio di centinaia d'anni, di faccia al mercato delle frutta. La finestra, dalle imposte tarlate di cui il sole avea mangiato tutta la pittura, era chiusa; in un vaso rotto, sul davanzale, una pianticella di margherite inaridiva. Don Peppe si fermò ansante innanzi al portoncino, levò il capo, gridò due o tre volte:
— Tore! Tore!
Nessuno rispose. Allora raccattò una pietra e si mise a battere al portoncino facendo un fracasso del diavolo.
La finestra si spalancò, sbatacchiando. Mise fuori il capo Tore, che stava facendo la siesta, e guardò giù nella via.
— Chi è? — chiese, con la voce rauca e indispettita.
— Io, — rispose don Peppe, col naso per aria. — E vengo per quell'affare che sapete....
— Quale affare?
— Volevo domandarvi.... Scusate.... Rinaldo è scampato?
Tore battè palma a palma, con una grossa parolaccia.
— Sangue di Giuda! — esclamò. — Ammazzato voi e lui! È scampato, sì, è scampato, ha ucciso i Saraceni!
Don Peppe rimase a bocca aperta, mentre l'altro faceva per chiudere la vetrata.
— Sentite....
— Domani! — urlò Tore, sbattendogliela sul muso.
Lui, dalla strada deserta, guardò ancora la finestra, intontito. La mala grazia non lo irritava: un fremito di compiacenza gli saliva pel corpo.
— Bravo Rinaldo! — balbettò.
Lentamente rifece la via. Ora parlava solo, sorrideva, si fermava a meditare, con le mani in saccoccia. Passando innanzi a una botteguccia di tabaccaio comprò un sigaro e lo accese, fumando a boccate grosse, continuando a mormorare fra sè e sè.
Infine, quando sedettero a tavola e Nunzia gli mise innanzi il piatto con la minestra fumante, lui sorrideva ancora, mentre molte occhiate curiose lo interrogavano.
— Oh! sapete, — fece a un tratto, non potendone più, — questa è la verità, sono stato a sentir Rinaldo....
Vi fu un silenzio. Lui ingollò un boccone, passò la salvietta sulle labbra e soggiunse col cucchiaio levato:
— E ha fatto cose belle, sangue di Dio, cose belle, belle assai!...
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