A scuola la mia popolarità calò notevolmente e persi il mio carisma. Le mie amiche mi schivavano e non sembrarono più interessate alle mie informazioni. “Poco importa!”, mi dissi. La mamma mi ripeteva spesso: “Se vuoi diventare una vera signora non puoi conformarti agli altri”. Ecco un altro dei miei obiettivi: da grande, avrei anch’io calzato scarpe di coccodrillo, portato una collana a tre fili e indossato dei guanti.
La mamma voleva aiutarmi a raggiungere il mio obiettivo e per questo la trovavo meravigliosa. Un giorno andammo in un negozio di stoffe ad acquistare l’occorrente per un nuovo mantello da indossare la domenica. La commessa ci mostrò parecchi tessuti e puntualizzò: “Sono i più richiesti di quest’anno, se li contendono tutte ”.
La mamma si abbassò verso di me. “Scegli, Simone, però non sentirti obbligata a fare come le altre. Devi essere te stessa! Non c’è che una Simone Arnold e i tuoi gusti sono unici. Vuoi essere una signora? Ricordati che le signore dettano la moda, non la seguono. Hanno personalità”.
La commessa, una donna di una certa età, ci guardava stupita e con la bocca spalancata. “Speriamo che non vi entri una mosca!”, commentai fra me.
“Sei molto giovane per decidere da sola”, riuscì finalmente ad articolare. Come poteva darmi della bambina? Avevo sette anni.
“Devi solo tener conto della qualità e del prezzo”, aggiunse la mamma.
“Potete mostrarci questa, quella e l’altra laggiù, per piacere?”, dissi indicando alcune stoffe.
La mamma si informò sui vari prezzi. “Simone, l’ultima è troppo costosa. Non vorrai che tuo padre lavori una settimana intera solo per il tuo mantello, vero?” La fece rimettere sullo scaffale. “Puoi scegliere fra le altre due”. Era veramente avvincente! Mi sarei vestita a mio piacimento. Che soddisfazione potermi distinguere dalle altre!
“Non vi farete idoli”. “Essi hanno occhi, ma non possono vedere, hanno orecchie, ma non possono udire… Coloro che in essi confidano diverranno proprio come loro”, così recitava il passo della Bibbia che la mamma mi aveva appena letto. Ancora prima che lo ripetesse, abbandonai la tazza di cioccolata bevuta per metà, tolsi dalla mia collana e dal mio bracciale le medaglie della Vergine, corsi a gettarle nel gabinetto e tirai lo sciacquone. Poi mi precipitai in cameretta per smantellare il mio piccolo altare. La mamma rimase inchiodata sulla sedia, ammutolita per la profonda emozione. Appena tornai per terminare la colazione, lei mi disse: “Avremmo potuto regalare le medaglie d’oro ad Angèle”.
“Mamma, Dio proibisce di fare degli idoli. Anche Angèle commetterebbe un peccato se le portasse”.
Il giovedì non c’era lezione, perciò potevo attendere il papà al suo rientro dal lavoro. Per una ragione inspiegabile andò dritto verso la mia cameretta; lo vidi diventare improvvisamente pallido, come il giorno in cui era stato quasi folgorato da un fulmine alla fattoria dei nonni. Vederlo in quello stato, mi spaventò. Poi si diresse in silenzio verso la cucina, dove la mamma gli stava preparando il pranzo. Preferii non seguirlo perché l’espressione del suo viso lasciava presagire una tempesta.
“Dov’è l’altare di Simone?”, domandò con voce tagliente. La mamma, senza smettere di cucinare, gli rispose con calma:
“L’ha fatto a pezzi”.
“Gliel’hai detto tu?”
“Assolutamente no! Le ho solo letto certe leggi di Dio nella Bibbia”.
“Mi avevi detto che non le avresti mai insegnato le tue idee. Me lo avevi promesso!”
“Adolphe, si tratta di una Bibbia cattolica! E poi Simone ha agito senza neppure lasciarmi terminare la lettura. Non ti capisco. Non ti è mai piaciuto il suo altare con le immagini sacre e le candele. Allora dimmi, sì, dimmi perché adesso dai in escandescenza?” E, riprendendo il suo piatto, aggiunse: “Te lo riscaldo. Per favore, devi mangiare, fallo per noi!” Il papà borbottò fra i denti qualcosa che non capimmo, ma la bufera sembrava essersi momentaneamente calmata. Da parte mia continuavo a pormi domande, ma per il momento rimanevano senza risposta. Per quale ragione il papà si era irritato tanto? Forse perché le statue erano costate care e aveva dovuto lavorare a lungo per pagarle? La sua reazione mi aveva fatto molta paura!
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In quel nebbioso pomeriggio di ottobre avevamo un appuntamento con zia Valentine. Era una distrazione gradita che mi avrebbe permesso di sfuggire all’atmosfera pesante che si era creata in casa. Zia Valentine ci aspettava alla fermata del tram di Porte Jeune. Per riscaldarsi portava al collo una pelliccia di volpe dagli occhi di vetro che diffondeva una scia di canfora. Angèle non c’era.
Voleva farmi un regalo di mio gradimento. La mamma voleva trovarne uno per mia cugina. Scelsi un astuccio da cucito.
L’aroma delle castagne calde profumava l’aria del quartiere commerciale di Mulhouse. Sulla strada di ritorno, all’angolo della Rue du Sauvage, un uomo muoveva avanti e indietro sulla brace un’immensa padella di ferro. Poi, mentre le castagne arrostivano, preparava dei cartocci con fogli di giornale. Zia Valentine gli porse una moneta e ricevette in cambio delle caldarroste appena abbrustolite e impacchettate, tutte per me. Che pomeriggio meraviglioso! Mi ero completamente dimenticata l’umore tetro del papà.
Ci affrettammo a rientrare prima del tramonto. Ero entusiasta del mio regalo, il primo ricevuto da zia Valentine e per di più l’avevo scelto proprio io! “Mamma, anche il papà sarà contento del mio regalo, vero?”
“Sicuro, ma cerca di capire che è molto stanco. Hai visto che ultimamente non ha giocato con te? Non ce la fa neanche più a controllare i tuoi compiti! Sarebbe meglio che lo lasciassi tranquillo questa sera e andassi direttamente nella tua stanza a chiacchierare con Claudine”.
Mi precipitai pazza di gioia su per le scale del palazzo, come fossero un’unica rampa. Scartai con foga il regalo, poi gridai: “Guarda che cosa ho ricevuto papà!” Era seduto inerte sulla sua poltrona. Eppure diceva sempre che solo gli sfaticati e i morti restavano in ozio! Gli mostrai il regalo.
“Mm hum”.
“Guarda com’è carino, papà!”
“Mm hum”.
“Me lo ha comprato zia Valentine”.
“Ah sì?”
“L’ho scelto io, però”.
“Bene, bene”.
Un cenno della mamma mi fece comprendere che avrei fatto meglio a non insistere.
Allora andai dalla mia bambola per mostrarle l’incantevole astuccio da cucito ricoperto di stoffa a fiori: conteneva delle graziose forbicine e dei rocchetti di filo di tutti i colori. Lei, per lo meno, aveva l’aria interessata!
Una cappa di silenzio pesava sulla nostra casa. La mamma rinunciò al dialogo con un marito che aveva deciso di tacere. Immaginavo che la malattia del papà si fosse aggravata. La mia stanza mi sembrava stranamente vuota. Solo l’innocente bambola in miniatura seduta sulla mensola era sfuggita alla mia furia distruttiva. Messa così in bella vista, mi trasmetteva un accresciuto sentimento di sconforto: era un richiamo solenne e permanente alla mia coscienza. La mamma non mi aveva ancora permesso di spostarla. I giorni tristi si susseguivano come un corteo interminabile.
A scuola la signorina accettò con aria indifferente le mie dalie e le ripose in una vecchia brocca sul davanzale della finestra. Forse non le piacevano più? Prima, quando gliene offrivo un mazzolino, mi ringraziava con un sorriso e le sistemava in un grazioso vasetto. Adesso i miei fiori non le davano più la gioia di una volta. Doveva essere ammalata anche lei.
Un sole debole e pallido fece finalmente la sua comparsa dopo lunghi giorni grigi. Un timido raggio illuminava un pacchetto posato