Parlavano di religione. Sentivo la conversazione a intermittenza, in quanto le loro voci a volte si riducevano a un sussurro. “Adolphe, mi pare incredibile, sì persino impossibile, che Dio accetti di incarnarsi in un’ostia innalzata da mani così sudice come quelle di questo prete”.
“Emma, noi uomini non abbiamo il diritto di giudicare un servitore di Dio e…”
Non riuscivo proprio a capire. Mi rifugiai di nuovo sotto le coperte, pensando con orrore a quel sacerdote che non si lavava le mani prima di celebrare la messa!
L’indomani mi trovai d’innanzi alla piccola entrata laterale della chiesa. I battiti del mio cuore accelerarono. “È la casa del Buon Dio. Non può esserci pericolo qui, vero?” Aprii lentamente la porta, ma la chiesa apparve così buia e deserta che la richiusi immediatamente e me la diedi a gambe. Il giorno dopo presi una decisione: sarei entrata, mi sarei fatta il segno della croce con l’acqua santa, avrei percorso il corridoio in punta di piedi nascondendomi dietro i banchi, poi mi sarei inginocchiata davanti all’altare. Lì avrei chiesto in fretta perdono spiegando che non potevo trattenermi perché mi era stato proibito di entrare in chiesa da sola. Infine sarei uscita di corsa dalla parte opposta.
In preda a un’ansia incontrollata, fui quasi tentata di rinunciare. La porta si aprì con un lungo cigolio. Tremavo dalla testa ai piedi. I volti dei santi sembravano prendere vita. Davanti all’altare mi mancò il fiato. Prima di giungere dall’altra parte, sentii le mie gambe cedere. Credetti di udire una voce provenire dalla navata, allora iniziai a correre con tutte le mie forze e mi precipitai verso la porta, sbattendola violentemente dietro di me.
La mia coscienza mi tormentava perché avevo disobbedito, ma ragionai: “Dio è maggiore dei miei genitori! Loro non conoscono il mio desiderio di divenire santa!” Era il mio grande segreto e, per realizzarlo, mi sentivo persino disposta a incorrere nella loro disapprovazione. Ma non fu necessario, infatti non vennero mai a conoscenza delle mie visite clandestine!
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Ero consacrata alla Vergine Maria dal giorno del mio battesimo e ora mi era stata offerta la possibilità di partecipare alla processione che avrebbe avuto luogo di lì a poco. Il prete sarebbe sfilato sotto un baldacchino retto da quattro uomini. Avrebbe tenuto davanti al viso un ostensorio d’oro che richiamava le sembianze del sole, mentre delle bambine avrebbero cosparso il tragitto di petali di fiori. Che bella cerimonia sarebbe stata! La mamma confezionò un bel vestito bianco di leggera organza con una cintura blu. Mi comprò delle scarpe nuove e una coroncina di rose. Non stavo più nella pelle! Purtroppo mi venne la tosse e tutto dovette essere annullato. Fino ad allora non mi ero mai ammalata. Perché doveva proprio capitare in quel momento? Dio era forse adirato con me? La mamma passò tutto l’abbigliamento a un’altra bambina. Mi rodevo dalla gelosia. Dopo soli tre giorni dalla processione fui di nuovo in piena forma, ma più furiosa che mai.
Quando ritornai a scuola, Frida non c’era. Il medico le aveva proibito di uscire fino a completa guarigione. Ogni giorno, passando sotto casa sua, la chiamavo senza ottenere alcuna risposta.
Un mattino vidi nel suo cortile dei vasi con meravigliosi fiori bianchi. Finalmente qualcuno si era preoccupato di lei e le aveva mostrato un po’ di attenzione!
La mamma mi mandò da Aline a comprare dello zucchero per le fragole. Salii i quattro gradini della drogheria e mi trovai dietro a una cliente alta e slanciata che indossava uno spolverino e delle scarpe di coccodrillo. Una vera signora, molto diversa dalle donne della nostra via…
La vidi allungare una mano inguantata di pizzo. Mi mancò il fiato: era lei, la bella signora che tanto ammiravo! Rimasi a bocca aperta e la scrutai con attenzione. Per fortuna la mamma non poteva vedermi!
Aline mi sussurrò all’orecchio: “Simone, non fissarla in quel modo. Ha il pancione perché ha mangiato troppe ciliegie e poi ha bevuto molta acqua”. Non me ne ero neppure accorta. Non avevo avuto occhi che per la sua bella camicetta e la magnifica collana. Che delusione! Dunque quella signora così distinta non sapeva controllarsi? La sua pancia era così gonfia che pareva dovesse scoppiare da un momento all’altro. La scansai bruscamente e, ultimati i miei acquisti, corsi via, lontano da quella donna senza ritegno.
La mamma mi interpellò: “Simone, perché non hai portato Zita con te a fare la spesa?”
“Perché è ammalata e lo è anche Claudine”. Indossavo il camice da infermiera cucito dalla mamma quando le avevo confidato che da grande avrei voluto esercitare quella professione.
“Non scordare che si tratta solo di un gioco. Puoi ancora portare fuori Zita, ne ha bisogno”.
“D’accordo, ma siccome non sta bene la vesto e la metto nella carrozzina di Claudine”. La mamma scoppiò a ridere. Sapeva bene quanto mi piacesse portare a spasso la mia cagnolina fasciata e coricata supina come un neonato, con grande stupore dei passanti.
“No, ora è indispensabile lasciarla correre con le sue quattro zampe”.
“Ma mamma, è veramente ammalata!” Io lo sapevo: ero l’infermiera!
“Come lo sai?”
“Non hai notato che la sua testa sembra rimpicciolirsi ogni giorno un po’ di più rispetto al corpo?”
La mamma tacque e versò lo zucchero sulle fragole: “Guarda, il succo scioglie lo zucchero. Quando torneremo dalla passeggiata dovremo solamente cuocere il tutto”.
Dal nostro giardino godevamo una vista magnifica. All’orizzonte, da un lato della collina, si scorgevano i contorni azzurrognoli dei Vosgi e, dall’altro lato, i monti della Foresta Nera tedesca illuminati da un sole sfavillante.
“Sta’ attenta a Zita e impediscile di scavare buche dappertutto”.
Facile a dirsi! Davanti a una tana di topo, Zita sapeva dar prova di una forza e di una testardaggine fuori del comune e non era facile trattenerla dalle zampe posteriori per impedirle di infilarcisi.
Il crepuscolo sostituì infine l’ombra degli alberi, perciò radunammo celermente gli utensili da giardinaggio. Durante il ritorno, tenevo Zita al guinzaglio. Improvvisamente sentimmo un rumore che pareva il sibilo del vento. Il cielo assunse un colore rossastro e delle volute scure turbinarono sulle nostre teste. La mamma mi afferrò per mano e ci precipitammo al riparo dalle faville che svolazzavano da tutte le parti. Stava bruciando una fattoria!
Dal centro dell’incendio sprizzavano dei tizzoni ardenti che accendevano nuovi focolai nell’erba secca. Alcune galline correvano all’impazzata e altre avevano preso fuoco. Nessuno riuscì a soccorrere i maiali e le mucche prigionieri nella stalla. Gli automezzi dei pompieri erano giunti dalla vicina città per cercare di domare il rogo che stava consumando la fattoria e le case del vicinato. I caschi dei soccorritori riflettevano le fiamme, i loro visi erano rossi e le loro uniformi nere. L’edificio scricchiolò e improvvisamente crollò sugli animali intrappolati e pose fine alle loro sofferenze.
Ci permisero di riprendere la strada di casa, mentre dalle travi annerite si levava ancora del fumo. L’aria ne era satura anche a notevole distanza. Che spettacolo sconvolgente!
Rincasai tutta tremante, incapace di mangiare o di giocare. Lo spavento mi provocò la febbre e la mamma mi consigliò di coricarmi. Zita, che pareva abbattuta tanto quanto me, si accucciò ai piedi del letto con gli occhi lucidi. Non era ancora ora di dormire, ma la mamma mi propose: “Ti sentirai meglio dopo una buona notte di riposo”.
Quella notte fu tutt’altro che tranquilla. Vedevo fuoco dappertutto, anche con gli occhi chiusi. Nei miei incubi udivo i versi degli animali che bruciavano. La mamma venne a stendersi vicino a me.
Il giorno seguente non mi sentii affatto meglio. “Mamma, è stato Lucifero a incendiare la stalla dove si trovavano gli animali?”
Lei mi elencò le cause più probabili