È di questo tempo il celebre ratto delle spose veneziane, che ispirò la poesia e le arti. È leggenda, è storia? I più vecchi cronachisti, l'Altinate e il diacono Giovanni, vissuto tra il cadere del secolo X, Martino da Canale, che narrò nel XIII, non ne parlano. Certo, a quell'avvenimento vero e leggendario si dee l'origine d'una delle più pittoresche feste veneziane. Non la storia soltanto, anche la fantasia ha i suoi diritti: e l'indagine fredda non ha potuto cancellare dalle pagine della storia questa tradizione di coraggio e di valore. Era costume veneto, l'adunarsi delle fidanzate nella chiesa di Olivolo, il dì secondo di febbraio, perchè dal vescovo fossero le loro nozze benedette. Biancovestite, coi capelli disciolti, ornate di molti gioielli, tenevano in mano una cassetta (arcella), contenente la dote. I pirati slavi approdarono di soppiatto in Olivolo, irruppero nella cattedrale, rapirono le donne, gli uomini e, secondo alcuni, anche il vescovo e i preti, e si diressero verso Caorle, a un porto, chiamato ancora delle donzelle, per dividersi le fanciulle e la preda. Ma i Veneziani, rimessi dal primo sbigottimento, armarono in fretta alcune barche e guidati dal doge, raggiunsero a Caorle i corsari, li assalirono, li sconfissero e ritolsero loro le spose e il bottino. In memoria di questo avvenimento fu instituita la festa così detta delle Marie. Singolarissima e fastosa. La descrivono, tra altri, un documento del 1142 e la Cronaca di Martino da Canale. Quei documenti parlano di ricche compagnie di damigelle portanti vassoi e fiale d'argento, e precedute da trombettieri, di lunghe file di chierici vestiti di sciamiti d'oro e di damasco. Insieme col doge si recavano tutti al tempio di Santa Maria Formosa. Dodici fra le più belle e le più giovani donzelle, le Marie, acconciate molto riccamente con drappi d'oro e corone di pietre preziose, erano presentate al doge e festeggiate poi lungo il Canal grande. La festa durava dal 25 gennaio al 2 febbraio, fra baldorie, regate e spettacoli d'ogni maniera. Così una delle prime e più solenni feste civili dei Veneziani fu un omaggio alla donna.
Meno gentile, ma non meno singolare sarà la festa commemorante la vittoria sopra Ulrico patriarca d'Aquileia. I Veneziani vittoriosi trassero prigione il patriarca con dodici de' suoi canonici, avendoli, dice Marin Sanudo, il principe dei veneti cronisti, a farli tajar la testa. Ma, ad istanza del papa, furono rimandati, pur che il patriarca dovesse inviare ogni anno, nel giovedì grasso, un toro e dodici maiali – simbolo di scherno del patriarca e de' suoi canonici – per servir di spettacolo alla moltitudine. E la festa del Giovedì grasso, in cui si uccidevano il toro e i maiali, si rinnovò ogni anno con grandi allegrezze e matte baldorie.
Il sommo della veneta potenza, nel periodo delle origini, fu raggiunto sotto il dogato di Pietro Orseolo II. Ei ricondusse la quiete nella fervida città, aggrandì, non impetuosamente, ma per gradi, lo Stato, riescì, col valore, colla sagacia, colla costanza, ad accrescere e consolidare la propria potenza. La mente avea fine ed aguzza nel trovare ingegni a tenersi bene in arcione tra il Cesare bizantino e l'Imperatore tedesco. Trionfò dei pirati narentani, guerreggiò gli Slavi, conquistò la signoria delle città marittime della Dalmazia, tramandando ai successori il titolo di doge della Dalmazia, liberò l'Adriatico dai Saraceni, che l'infestavano. A buon dritto potè il doge, in appresso, commemorando tali conquiste, sposare il mare con la cerimonia più splendida di tutte le feste veneziane. Nè le arti della pace erano trascurate dal gran doge. Compì una parte della basilica di San Marco nel 1006, e quel turrito palazzo ducale, dove ospitò l'imperatore Ottone III, che ammirò, a quel che ne dice il diacono Giovanni, cappellano del doge Pietro, la bella e decorosa fabbrica. Dopo un secolo, sotto Ordelafo Faliero, si gettavano le basi di quell'Arsenale, che fu il più vasto d'Europa, e che ricordano tutti, più ancora che pei suoi fasti, per la stupenda descrizione di Dante – tanta è la potenza dell'arte.
Nel secolo XI, può dirsi veramente fondata la marittima signoria di Venezia, e l'Adriatico incominciò da questo tempo a considerarsi come un lago della repubblica. La libertà e il vero spirito dell'antica Roma qui continuavano in tutto il loro vigore. Questo giudizio non è di qualche storico piaggiatore, ma d'una delle anime più nobilmente fiere, che sieno mai passate pel mondo: Ildebrando. Di tanto fe' degna Venezia ardor di speranze e tenacia d'intendimenti. E il meraviglioso espandersi della possanza guerresca e civile si accompagna all'avanzamento dei commerci. Alle inquietudini interne, alle agitazioni civili succede la forte serenità. Vivissimo il commercio. Nelle vecchie carte si parla sovente di carichi di mercanzie pel valore di 150,000 ducati d'oro, di navi cum raxon de drapi, telle et altre cosse de valor de ducati 200,000. E si noti che erano in gran parte piccoli legni, perchè tutti voleano trafficare, tanto che il governo prescrisse con decreto le proporzioni più piccole di uno scafo per avventurarsi in mare.
Nè men fiorenti le arti e le industrie. – Venezia ha, fin dai secoli più remoti, fonderie di metalli, fabbricatori d'organi, officine di tessitura, di tintoria, di vetreria, fabbriche di sete, lini, velluti, broccati. Le antiche chiese, specie quelle di Grado e di Torcello, scintillavano di mosaici. Negli Annali di Eginardo, si ricorda, all'anno 826, Giorgio, prete veneziano, chiamato in Aquisgrana, per la sua abilità nel costruire organi. Orso I Partecipazio, asceso al trono dogale nell'864, mandò in dono a Costantinopoli dodici campane, e Pietro Orseolo II, fatto doge nel 991, fe' regalo a Ottone III di una tazza di fino lavoro di due troni rivestiti di lamine d'avorio e di una tazza d'argento. Non si può dire che in egual fiore fosse la cultura letteraria, se due documenti sono da due dogi, Pietro Tradonico e Tribuno Memo, firmati così: Signum manus domini excellentissimi Petri ducis e Signum manus Tribuni ducis. Ma fra quel pratico e operoso popolo di navigatori e di trafficanti non potevano aver culto se non le arti, che al dolce unissero l'utile. E tali arti andarono a mano a mano meravigliosamente avanzando.
Martino da Canale, narrando l'incoronazione di Lorenzo Tiepolo, nel 1256, descrive con pittoresca efficacia la sontuosa processione delle Arti veneziane: primi venivano i fabbri col loro gonfalone e con ghirlande in capo: poi i pellicciai riccamente addobbati di armellino e vaio, di sciamito e zendado. Seguivano, cantando, accompagnati da trombe, portando coppe d'argento, i tessitori; i sarti in veste bianca a stelle vermiglie: i fabbricanti di drappi d'oro e di porpora, con cappucci dorati in testa e belle ghirlande di perle; e via via i lanaiuoli, i barbieri, i vetrai, gli orefici. Gli orafi specialmente raggiungeano la dignità d'arte più squisita in quei piccoli capilavori di imagini, imitate dai bizantini, in quegli ornamenti d'oro e perle, di cui è perfino menzione nel testamento del doge Giustiniano Partecipazio dell'829, e in quelle catenelle d'oro, preferito ornamento sì delle gentildonne come delle popolane venete. Cito questo lieve, ma non insignificante particolare. Nel 1225, Federico II, il grande sovrano e il grande artista, ordina a un orafo di Venezia una zoia, un gioiello.
In questo periodo delle origini, la città ha un aspetto singolarissimo. Questa maravigliosa zattera di sabbia e di fango è indefinibilmente strana per forma e non rassomiglia ad alcun altro paese. Il Sannazaro, nel tempo in cui Venezia, un po' invecchiata, incominciava a porgere ascolto benigno alle bugie dei poeti, scrisse un epigramma, che gli fruttò cento scudi per ciascun verso (i versi erano però sei soltanto) e nel quale, comparando Roma a Venezia, conchiude col dire che quella fu fabbricata dagli uomini, questa dagli dei.
Illam homines dices, hanc posuisse deos.
Nulla di più poeticamente menzognero. Venezia fu fatta dai Veneziani. Il nume indigete erano la forza, l'operosità, il vigore, il coraggio, l'ardore di quei profughi intrepidi. Per voi, ad esempio, o signori, la patria è un dono, uno splendido dono di Dio – pei Veneziani è l'opera dell'industria umana. Entro questo vostro divino anfiteatro di colline, rigate dai canali freddi e molli, fra la magnifica pompa della verzura e dei fiori, palpita una dolce vita, dove hanno sorrisi tutte le cose, viventi nella felicità di un'armonia serena, armonia dei colori e della luce, del suolo e dello spazio. Qui l'opera dell'uomo è un sublime commento all'opera della natura, e l'arte temperata al sentimento dell'aere circostante, assume una elegante semplicità e compostezza di linee, una nobiltà morale di forme che riposa l'animo e contenta l'occhio. La cupola del Brunelleschi, il campanile, la loggia dei Lanzi, Orsanmichele sono come il compimento di Bellosguardo, di Fiesole, di Monte Oliveto, di San Miniato, e le linee del paesaggio con quelle degli edifizî si fondono nel comune accordo. Venezia invece, eretta sur un labirinto di secche e di paludi, sovra un piano di acque e di alghe, dovea rispecchiar nell'aspetto, fin dall'origine sua, i capricci imaginosi dell'uomo,