La storia, o Signori, non è una filosofia, non è una predica morale, non fa che constatare i fatti. Ma percorretela in lungo ed in largo, ed essa vi ripeterà di continuo, che l'egoismo veramente, profondamente umano, è l'abnegazione; che ciò che solo può rendere l'uomo felice sulla terra, è il vivere per gli altri; che quando le leggi e le istituzioni ci spingono per questa via a cercare un ideale, cui far sacrifizio della nostra esistenza, e dal quale solamente la vita può ricevere il suo valore e la sua dignità, quello è il momento in cui il carattere morale s'innalza e le nazioni diventano forti. Quando invece gli uomini si rinchiudono, come gli Italiani del Rinascimento, nel proprio egoismo, la decadenza diventa allora inevitabile.
Ma vi è ancora un'ultima osservazione. Gli stranieri, i quali si sono mossi a studiare il Rinascimento, hanno detto: Ecco una nazione, la quale, nel momento in cui più le sue arti e le sue lettere fioriscono, nel momento in cui le più nobili qualità del suo ingegno si manifestano, si corrompe sempre più rapidamente; ecco una nazione che cinicamente ride sempre di tutto, una nazione che, allora quando più fiorisce intellettualmente, è priva di ogni fede. Quelle idee stesse, che saran sempre sua gloria, che essa mise nel mondo con la sua arte, la sua letteratura, la sua scienza, percorrono l'Europa, e ne fecondano la civiltà, perchè vi trovano un'atmosfera morale; ma in Italia non riescono ad impedire la sua decadenza, perchè in essa il senso morale è pervertito. E ne hanno concluso, che, quasi per legge di natura, nel nostro carattere nazionale risplendono l'ingegno e tutte le qualità intellettuali, ma sono invece offuscate le morali. Manca la vera intimità, come essi dicono, del cuore, dell'animo. E però anche nella loro arte gl'Italiani vedono più la forma che la sostanza, più il sensibile che l'intelligibile e l'ideale. Quando si vogliono davvero penetrare i misteri dell'anima, rappresentare la profondità, la santità degli umani sentimenti, occorre rivolgersi alle nazioni germaniche, che vi riescono assai meglio, perchè questo è il loro proprio regno, nel quale agl'Italiani non è dato entrare. Uno storico tedesco di grandissimo valore, che meglio d'ogni altro conosce il nostro Rinascimento, il Burckhardt, a questo proposito, osservava: Ma se fosse proprio vero che il carattere degl'Italiani fu quale voi lo descrivete; se non fossero allora vissuti altri che i Borgia, gli Sforza, i Malatesta, e i più corrotti novellieri avessero davvero rappresentato tutto l'essere morale della nazione, questa sarebbe caduta in un tale abisso da non poterne mai più risorgere in eterno. Il vostro giudizio deve certamente avere qualche cosa di unilaterale, di erroneo. È meglio lasciare in pace i popoli, quando non si è in grado di giudicarli serenamente, sicuramente.
Ed invero queste condanne nazionali, che pretendono essere giudizii imparziali, dimenticano prima di tutto, che la storia del pensiero italiano cominciò allora con Dante e si chiuse con Michelangelo, le due intelligenze, cioè, che hanno in supremo grado quelle qualità appunto che si vorrebbero a noi negare; hanno tutta quella così detta intimità, tutto quel carattere epico, tragico, che nello spirito italiano dovrebbe assolutamente mancare, perchè manca nel Rinascimento. Dante e Michelangelo, si disse, furono due eccezioni. Certo i sommi ingegni sono eccezioni; ma sono pur quelli che meglio rappresentano il paese che li produce. E dimenticano ancora, che la storia da noi conosciuta, da noi studiata si occupa quasi sempre di quei soli ordini sociali che, nel Rinascimento italiano, furono primi a sentire l'azione corruttrice dell'atmosfera politica mutata, e che perciò più rapidamente si erano corrotti, avendo subito preso parte al nuovo vivere sociale. Che se quegli scrittori avessero voluto studiare davvero quali erano allora le condizioni dello spirito italiano, avrebbero dovuto esaminare anche gli ordini inferiori della società, nei quali, in tutti i tempi, le vecchie tradizioni si mantengono più lungamente, e vedere quali sentimenti, quali caratteri erano in essi. Avrebbero allora modificato i proprii giudizii. Una prova sicura di quanto diciamo si ebbe recentemente in due libri, che furono pubblicati dal compianto Cesare Guasti, e sono gli epistolarii d'un oscuro notaio fiorentino e di una gentildonna, che non aveva molta coltura. Ebbene, leggendo tali lettere (quelle del notaio Mazzei sono della fine del XIV secolo e dei primi del XV; quelle della Macinghi Strozzi, sono della fine del secolo XV), leggendole, ci par di tornare quasi due secoli indietro. Noi ritroviamo in esse ancora vivi tutti quei più puri sentimenti morali, che ricordano i tempi in cui la Repubblica veniva fondata, quando Firenze viveva sobria e pudica, e possiamo non solo scoprire un altro lato della società di quel tempo, ma vedere anche quali furono veramente gli uomini che fondarono la libertà, quali i loro animi quando essi crearono quelle grandi istituzioni, che i politici e letterati del Rinascimento cominciavano a disfare. Chi vuole accuratamente conoscere il Rinascimento e l'opera sua, per cavarne giudizii generali sull'indole del popolo italiano, dovrebbe pur distinguere ciò che in esso sopravvive del passato, e dà ancora frutti di cui il solo Rinascimento sarebbe stato incapace. Nel popolo, negli ordini inferiori della società, questo passato sopravvive sempre più tenacemente, e si può meglio studiarlo. Anche ai nostri giorni si ritrovano qualche volta gli avanzi di un passato assai lontano, che non dobbiamo trascurare nelle società moderne, se vogliamo conoscere bene il tempo in cui viviamo. A giudicarla tutta, la società bisogna esaminarla da tutti i lati.
Certo quando noi guardiamo in Firenze il Duomo, il Palazzo Vecchio e gli altri monumenti che gli stranieri tanto ammirano e tanto studiano, dobbiamo ammirarli anche noi. Ma, sebbene assai pochi vi pensino, non meno ammirabile è la condizione in cui la Repubblica fiorentina lasciò le campagne della Toscana, non per le amene colline, non per le ricche messi, ma per l'armonia sociale che vi regna, per le condizioni economiche in cui l'antica Repubblica pose il contadino. Nel 1289 i Fiorentini fecero una legge, la quale, con un linguaggio che sembra quello stesso dell'Assemblea Costituente in Francia, dichiarava che la libertà è sacra, inalienabile, che è voluta da Dio, è necessaria alla prosperità di tutto il popolo, e liberava perciò i contadini da ogni servitù. E sono questi i tempi medesimi, in cui s'iniziava quel contratto agrario che fino ai nostri giorni fu tanto ammirato, che il nobile animo del Sismondi chiamava uno dei grandi monumenti della sapienza civile degl'Italiani, che gli economisti moderni dichiarano uno dei mezzi più efficaci a liberare la società moderna dal pericolo sociale d'un conflitto di classi, da cui essa sembra minacciata. E questo fu fatto dai Fiorentini nel Medio Evo, quando il dominio della società spettava alla forza, e per tutto regnavano persecuzione e violenza. Fu quello il tempo in cui nell'Italia centrale venne trovata quella forma di contratto, secondo la quale il coltivatore della terra poteva, allora come ora, dire al proprietario: Tu sei il lavoro accumulato dei secoli, io sono il lavoro vivente. Abbiamo bisogno l'uno dell'altro, diamoci dunque amica la mano, e siamo soci. Così si chiamarono allora, e così si chiamano oggi. E allora come ora, o Signori, il lavoratore dei campi, il quale col sudore della sua fronte feconda la terra italiana, che produce quella ricchezza, che è tanta parte della prosperità nazionale, poteva tornare a casa tranquillo la sera, e godere anch'esso le gioie della famiglia, e sentirsi uomo come noi, e crescere con la sua la nostra felicità. E questo fu fatto dai Fiorentini quando in Inghilterra, in Germania, in Francia i contadini erano schiavi, erano servi della gleba. Quegl'Italiani che emanciparono l'uomo, che emanciparono il lavoro, dovevano pure avere un alto sentimento morale.
Il marchese Gino Capponi, l'illustre autore della Storia di Firenze, soleva dire che i Fiorentini non avevano mai così bene impiegato il loro denaro, come quando costruirono quel Duomo, che richiamò nella Città tanta gente ad ammirarlo. Ma si potrebbe aggiungere, che essi non furono mai così profondi calcolatori, come quando liberarono i coltivatori della terra, in un tempo nel quale erano schiavi da per tutto. E calcolarono non solo a vantaggio della loro prosperità economica, ma io credo che calcolassero anche a vantaggio della loro prosperità intellettuale e morale. Forse anzi in ciò sta una non ultima ragione del perchè tanto le lettere e le arti progredirono allora in Firenze. Io non credo, o Signori, che sia indifferente agli alti ingegni, i quali spingono sereno, profondo, sicuro lo sguardo nella luce del vero, come l'aquila fissa intrepida il suo occhio nel sole, non credo che sia inutile il non avere lo sguardo