LE CONFERENZE DI FIRENZE SU GLI ALBORI DELLA VITA ITALIANA1
«Raccogliere ascoltatrici e ascoltatori devoti, quanti amano genialità di studi, vigoria di pensieri, pittrice eleganza nel dire, e invitare gl'ingegni più colti, perchè ognun di essi nelle spirituali adunanze, colorisca, secondo un ordine determinato, una parte del gran quadro della Vita Italiana nei varii secoli; parve assunto degno di quelle tradizioni di gentilezza onde Firenze si onora, e occasione bene augurata per procurare che i più valenti, mossi da un solo pensiero, illustrino le pagine gloriose della storia nostra civile. Firenze negli Orti neoplatonici, ai rezzi delle ville suburbane, nelle botteghe degli speziali, e poi nelle accademie e nei dotti ritrovi, ebbe in altri tempi il primato delle letterarie adunanze. Noi vorremmo che ora potesse modestamente dar l'esempio di eletti convegni, in cui l'ascoltare fosse studio e ricreazione dell'animo.»
Così diceva un manifesto che portava in calce alfalbeticamente disposti, i nomi di Guido Biagi, G. O. Corazzini, Tommaso Corsini, Francesco Gioli, Diego Martelli, Carlo Placci, Arnaldo Pozzolini, Piero Strozzi, Pasquale Villari, e che, distribuito ne' salotti fiorentini e forestieri e commentato in varie lingue dalla viva eloquenza di apostoli convinti, ebbe la fortuna d'essere accolto con ogni favore. L'idea d'una serie di letture sopra un determinato argomento parve utile e buona: avrebbero almeno servito all'intento di farci conoscer meglio una parte della nostra vita passata e ricondotto a Firenze uomini di chiara fama, la cui voce da un pezzo non avea risuonato fra noi.
Il manifesto piacque a quanti lo lessero. Scritto con uno stile leggermente précieux, parea fatto apposta per accarezzare gli orecchi più delicati, per esser ritenuto a memoria, come una musica di parole armoniose e soavi. Era destinato segnatamente alle signore, senza le quali, – come disse un amico dell'amico più grande che esse abbiano avuto, di Messer Giovanni di Boccaccio, non si può far cosa che abbia profumo di gentilezza. E le signore che rimandarono le schede di associazione con le loro firme in lettere inglesi, magre e sottili, aveano subito compreso d'essere invitate a metter su qualche cosa che avrebbe voluto esser durevole e degna.
Frattanto, mentre d'ogni parte si chiedevan notizie di queste letture e della Società che le aveva promosse, venne innanzi l'inverno. L'argomento della prima serie era già scelto: Gli albori della Vita Italiana: e, distribuite le parti, già cominciavano i giornali ad annunziare questo che sarebbe stato l'avvenimento letterario dell'anno, storpiando maledettamente quel povero titolo che, di proto in proto, si mutava ora in allori e ora in alberi.
Restava da sceglier la sala per le conferenze: e la scelta avea grande importanza perchè da essa dipendeva il carattere e l'intonazione delle letture. Il luogo alle volte determina il buon esito d'un'impresa: lo Stabat in teatro non sarebbe lo Stabat, e la musica del Barbiere, non potrebbe esser sonata sull'organo di chiesa. Così queste letture non dovevano diventare lezioni cattedratiche e nemmeno conferenze popolari. Una sala pubblica, l'Aula Magna, quella del Buonumore, la Filarmonica, la Sala di Luca Giordano, per un'infinità di ragioni, oltre a quelle accennate, non parevano adatte. Non ci voleva una sala a pigione; ma si desiderava l'ospitalità signorile di qualche antico palazzo. Il sogno era una bella sala con arazzi alle pareti, con un di quei larghi camini del quattrocento che invitavano i nostri antichi all'intimità del focolare, con le lumiere di nitido cristallo penzolanti da un soffitto a cassettoni, con il profumo dei fiori accomodati nelle paniere e nei vasi, con il tepore… moderno d'un calorifero invisibile. E il sogno si avverò grazie ad un gentiluomo artista, sempre primo dove si tratti di tentare cosa utile e buona, e la cui benevola cortesia è a prova di fuoco come la porcellana della splendida Manifattura di Doccia. Il marchese Carlo Ginori, deputato al Parlamento, R. Commissario per le antichità e belle arti della Toscana, proprietario d'una fabbrica meravigliosa, cacciatore, schermidore e navigatore appassionato, affittuario dell'isola di Montecristo e, dopo tutto, bello e compito cavaliere, – concesse alla società la sala del suo palazzo, e le Letture fiorentine si chiamarono «le conferenze di Casa Ginori».
La scelta della sala e la pubblicazione del programma per la prima serie di letture che cominciarono il 1.º marzo 1890 per cessare il 19 aprile, crebbero la curiosità universale. Se ne parlava dappertutto, nei crocchi degli sfaccendati, come ai domino serali dei professori dell'Istituto Superiore, ai five o'clock tea delle più fashionables forestiere, come ai pranzi spirituali delle duchesse. Gli scolari chiedevano alla capitale o in provincia una tessera di giornalista per esservi ammessi; i giornalisti soli si dolevano di non poter essere, almeno una seconda volta, scolari.
Il primo marzo alle 3 pomeridiane precise, Olindo Guerrini saliva trepidando sulla cattedra improvvisata nella sala Ginori e sedutosi per leggere il suo Preludio, onde iniziavasi la serie delle Letture, si guardò intorno con occhi spauriti. Gli s'affollava da presso e lo stringea d'ogni parte una folla di ascoltatrici e d'ascoltatori curiosi, un pubblico da dar soggezione ai più esperti e da far subito desiderare a qualunque oratore di poter lì per li scomparire. Davvero meriterebbe uno studio particolare l'uditorio di quella sala, composto com'era di quanto ha Firenze di più culto ed eletto. Abbozzare qualche ritratto sarebbe indiscretezza; dirò soltanto che c'eran signore d'ogni età, d'ogni classe, d'ogni nazione, giovinette studiose che non perdevano una sillaba di quanto sentivano, gentildonne rinomate per genialità di studi e per eleganza di non studiati pensieri, donne ammirate per opere d'ingegno e per amore alle arti, volti sbiancati dagli anni ma cari e venerandi, volti rosei e sorridenti nella primavera della vita e ne' trionfi mondani, volti eburnei di fanciulle dallo spirito arguto, chiome nere con qualche filo d'argento, chiome sfidanti l'ala del corvo, o rutilanti come l'oro liquefatto o bionde come le spighe mature; occhi stellanti fatali ai poeti, e poeti co' baffi appuntati, e senatori veleggianti nel mare dei sogni entro le punte d'un solino, e giovinotti azzimati col fiore all'occhiello, e scolari, e artisti, e ufficiali, e barbe e occhiali di professori…
Le conferenze ebbero sempre questi giudici che non disertarono il campo. Conosco signore che si fecero scrupolo di mancare una sola volta; altre che vennero da lontano per assistervi; altre e moltissime che rimasero col desiderio, e scrivevan lettere alle amiche per aver compiuti ragguagli. Ma dei singoli oratori non parlo: l'opera che tutti insieme questi valenti ingegni hanno compiuto è una splendida pagina della nostra storia, da essi rimessa in luce. Gli Albori che si distinguevano a mala pena di mezzo alle oscurità delle origini, son ora rischiarati dalle indagini e dalla dottrina d'uomini per i quali il sapere è professione; ed ora il bel volume edito dai Treves appagherà il desiderio di quanti non poteron ascoltare questi artisti della parola.
Io non farò che enumerarli. Al Guerrini, nel cui volto tutti cercavano i lineamenti ideali di Lorenzo Stecchetti, successe l'onorevole Romualdo Bonfadini che svolse la prima parte del tema Le Origini dei Comuni Italiani. Parlar di Milano fu per lui facile assunto, e più facile ancora incatenare gli uditori con parola fluida ed ornata. Alto della persona, con una voce baritonale, col gesto largo e l'aspetto d'un padre nobile, riaffermò la riputazione ormai assodata di parlatore valente. Venezia e le repubbliche marinare era la seconda parte del tema sulle Origini dei Comuni e toccò a Pompeo Gherardo Molmenti, che la trattò con finezza d'artista e con quella signorile eleganza ch'egli sa mettere in ogni cosa. La terza parte: Firenze, fu il trionfo del Villari che, come pensatore profondo, come oratore appassionato ed efficace, ebbe un de' maggiori successi di che possa andar lieto. Salito sulla cattedra, riuscì subito ad affascinare il pubblico con la vivezza del dire improvviso e la chiarezza del ragionamento. Il Villari non è un dicitore studiato: la sua eloquenza è tutta cose, e prorompe dalla profondità del sentimento, dalla convinzione della verità di quanto afferma. Lo chiamerei un oratore all'inglese, perchè appunto sdegna i piccoli artifizi della rettorica e, come il suo grande maestro De Sanctis, fa consistere tutta l'arte nella sincerità e nell'onestà del pensiero.
Le Origini del comune di Firenze, che posson credersi un soggetto arido e freddo, appena tollerabile per un erudito, furono per lui tema di splendide considerazioni storiche, dalle quali assurse a concetti nobilissimi sulla società umana e sulla moralità sociale. Gli uditori scaldati a quell'onda di vivide e calde parole, salutaron con applausi entusiastici l'illustre autore del Savonarola, del Machiavelli e delle Lettere Meridionali che avea trovato in quell'ora, dinanzi a così eletta