Tuttavia in questo primo accenno storico, quel popolo risorgente dallo squallore dei bassi tempi alla luce di un'êra novella, si rianima. Noi la vediamo la tranquilla verdura di quelle isolette, specchiantisi nel nitido specchio delle lagune. Oltre alle paludi giuncose, l'occhio si posa sul mare romoreggiante. Qui la pace inconturbata potea destare negli esuli il rimpianto e le memorie delle città disparite, gli splendori distrutti e i tristi albori della nuova patria; là, il furiar delle tempeste e il romoreggiar delle onde rendeano l'imagine dei tumulti della esistenza, di lotte, di pericoli, di gloria. Ma le tranquille melanconie dell'asilo non cullarono quelle anime, da tanti dolori agitate, in una pace mesta. Essi allungarono lo sguardo, oltre le paludi, sul verde Adriatico, e di esso sfidarono le lotte e i pericoli e in esso cercarono la gloria. – Lotta e gloria – ecco il grido anche dei secoli venturi. L'energia di quegli uomini si eleva ad eguale misura delle difficoltà e degli ostacoli naturali: la loro vita tutta si riassume nello scontrar pericoli, domarli, trionfare; una stessa passione li agita, li comanda, li possiede.
Alla vita frugale e laboriosa seguono più prospere condizioni. S'interrano dossi paludosi: ogni prominenza di sabbia, ogni più breve isoletta è abitata; si regolano i canali tortuosi, si preparano approdi e ripari alle barche, si arginano saline, si elevano mulini, si scavano cisterne, si riducono prati, si piantano vigne. Ma anche nel sicuro asilo della laguna giunge l'eco di battaglie e di stragi, di ribellioni e di lotte. Nella Venezia continentale, da prima si agitano guerre fra Ostrogoti e Bizantini, fra Bizantini e Franchi e Longobardi: poi lotte dei patriarchi di Aquileia e Grado e dei vescovi veneti ora coi Longobardi, or coi Bizantini, e controversie fra il papa e i patriarchi e i vescovi. In breve la pace incominciò a turbarsi anche nella Venezia marittima.
La prima costituzione politica, il reggimento dei tribuni marittimi, fu imitato dai Bizantini, sotto la sudditanza dei quali, sciolti ormai dalla gotica, passarono i Veneti. Confermano ciò, tra le fonti più antiche, la Storia gotica di Procopio, le inscrizioni di Grado del secolo VI, edite dal Filiasi e dal Mommsen, la Storia dei Longobardi di Paolo Diacono e gli Annali del franco Eginardo. Allorchè i Bizantini perdettero le città più importanti della Venezia terrestre e ritirarono anche dalle isole i loro eserciti, gli abitanti, non più soggetti a un dominio immediato, elessero un libero reggimento militare di tribuni.
Cessati i pericoli e la pietà e i ricordi delle comuni sventure, incominciarono le rivalità fra le isole, più o meno importanti, fra i tribuni maggiori e minori; poi sorsero contese sui confini o sulla proprietà delle terre coi Longobardi vicini, si sentì necessario creare nelle isole un capo unico, un duce, che il popolo, col suo liquido eloquio, chiamò doxe, titolo ritenuto poi sempre e con lievi mutamenti anche nella lingua e nelle relazioni internazionali. Al nuovo capo, eletto a vita, podestà quasi da sovrano, ricchezza di redditi e di insegne, pari alla dignità, spada, scettro e corona; ei giudice di liti e datore di ecclesiastici benefici: a lui il popolo richiedeva perfino la benedizione nelle adunanze solenni. Tuttavia le cause importanti dovevano essere trattate nell'assemblea generale e non già dal doge come sovrano assoluto.
Il primo Doge, Paoluccio Anafesto, con l'assenso o almeno senza opposizione della Corte greca, fu, nel 697, in un'assemblea del clero, dei tribuni e dei più notabili cittadini, eletto in Eraclea.
Paoluccio strinse coi vicini Longobardi un patto, il primo, di cui si abbia memoria nelle storie veneziane, che determinò i confini dei due Stati e le ragioni scambievoli dei commerci.
In Eraclea, la vita ci si presenta assai diversa da quella descritta con idillica poesia da Cassiodoro. Abbiamo accennato come le varie isole dell'estuario fossero asilo agli abitanti delle desolate città di Altino, di Aquileia, di Padova, di Oderzo, di Concordia, di Vicenza. Ma una buona parte di quei fuggitivi s'erano riparati in luoghi, dipendenti anche prima del loro municipio, come Grado, ad esempio, che aveva fatto parte della dizione aquileiese: altri invece erano venuti ad occupar terre, sulle quali i padri loro non aveano mai avuto alcun diritto. Nei primi tempi, la sventura comune non avea lasciato luogo a discutere i diritti di ciascheduno, e poveri e ricchi, come dice Cassiodoro, conviveano colà in eguaglianza. Ma quando tacque il timore dei barbari, sorsero gelosie e contrasti di elementi diversi, tendenti a soverchiarsi a vicenda. Le ire interne, rinfocolate ora dai Greci, ora dai vicini dominatori della terraferma, diedero origine alle due parti veneto-greca e veneto-italica. Di qui torbidi mutamenti di governo. Non più il doge, ma l'annuo governo dei maestri dei militi. Dopo poco si ritornò ai dogi e per togliere ogni gelosia si trasferì la capitale a Malamocco. Alle rivalità dei maggiorenti, alle gare delle due opposte fazioni, s'aggiungeano le discordie e le vendette del popolo, il quale, specie quando il doge tentava rendere dinastico il potere vitalizio, associandosi quale il figlio, quale il fratello, si ribellava, uccideva, incendiava. È un fiero delirar di battaglie e di stragi. Nel 717, Eraclea è assalita e messa a fuoco dagli abitanti di Equilio, che danno morte al doge Anafesto e a' suoi fidi. Nel 737 il doge Orso è ucciso a furore di popolo; nel 741, il maestro dei militi Giovanni Fabriciaco è deposto e abbacinato; nel 755, Galla si ribella al doge Diodato, lo imprigiona, lo accieca, e usurpa il ducato per poco più d'un anno, trascorso il quale, il popolo insorge contro Galla e gli appresta la stessa sorte, ch'egli avea procurata all'infelice antecessore. Nel 764, i nobili macchinano le fila di una congiura, rompono in furibondo partito, traboccan di seggio il doge Monegario e gli strappano gli occhi. Nel 801, circa, il doge Giovanni Galbaio, fautore dei Bizantini, manda il figlio a Grado, con una divisione della flotta, per assassinarvi quel Patriarca, che inchinava invece ai Franchi. Il figlio di Galbaio prende d'assalto la città, imprigiona il Patriarca e lo fa precipitare dalla torre più alta del Castello. Ma, dopo tre anni, il doge Galbaio e il figlio Maurizio debbono fuggir da Venezia per non cader vittime di una congiura, ordita dal nipote dell'ucciso patriarca di Grado. Il partito franco riacquista allora vigore ed è eletto doge Obelerio. Così che non errava il Machiavelli affermando Venezia, forse più d'ogni altro comune italiano dell'età di mezzo, aver provato il furore delle fazioni.
Codeste terribili agitazioni doveano metter capo all'invasione straniera. Ma Venezia, destinata ad accogliere le fatidiche memorie del popolo italiano, escì salva dalle turbolenze, che ne comprometteano la libertà e l'esistenza.
Obelerio, appena eletto al dogato, era andato, insieme col fratello Beato, a Diedenhofen, dove allora teneva corte l'imperatore Carlo, per rendere omaggio di sudditanza ai principi franchi, che agognavano il dominio anche del veneto litorale. Ma ritornato in patria, quando una flotta greca, sotto il comando di Niceta, approdò alle isole, il doge infido, mutò intendimenti, accostandosi ai Greci. Allora, il figlio di Carlo Magno, Pipino, con forte esercito e numerosa squadra di legni, invase e distrusse gran parte del ducato veneziano, minacciando da presso la capitale Malamocco. Nel supremo pericolo si accetta il consiglio del nuovo doge Agnello Partecipazio, di rifugiarsi nella umile isoletta di Rialto, ove erano le offese più pronte e le difese più sicure. Pipino, dice la tradizione, vuol inseguire i fuggitivi: fa costruire con sassi e fascine un argine, presso Rialto, e ordina ai suoi cavalieri di avanzarsi. Ma i cavalli dei Franchi sulla strada malferma, s'impauriscono, balzano di qua e di là nell'acqua, i Veneti piombano colle loro navi sui nemici sgominati e ne menano tal strage, che a quelle acque rimase il nome di canale orfano per le famiglie franche private de' loro cari. L'orgoglio nazionale ha abbellito coi colori della leggenda la vittoria dei Veneti contro il primo usurpatore, che osasse mettere il piede sul sacro suolo della patria. Le tenebre di questa età tempestosa son come solcate da un bagliore dell'antica gloria. E certo, in mezzo alle lotte fratricide di quei tempi, non ispirate se non all'odio ed alla rapina, questa può anche dirsi la prima vittoria italiana. E il nome sacro d'Italia, offuscato da tante ignominie, era raccolto con tanta pietà sul lembo estremo della penisola, nell'umile isoletta di Rialto. Ed era bene affidato.
Quella stessa incomposta ardenza dovea, per fatalità storica, mettere capo a leggi di moralità e di giustizia; quelle lotte erano pur segnale di molta ed esuberante vita, e per questa via si dovea compire la legge del progresso veneziano. Quando invece sull'alba della vita popolare il dispotismo di un tiranno mette il suo volere in luogo della libertà popolana, la quale deve manifestarsi con tutti i suoi errori e tutti i suoi eccessi, gitta i semi di rivoluzioni, che scoppieranno