L'uomo che a siffatto movimento diede l'impulso primo e che seppe per alcun tempo vigorosamente capitanarlo – forse inconscio delle sue ultime conseguenze – fu il celebre arcivescovo Ariberto d'Intimiano, probabilmente rampollo della illustre famiglia De' Capitani d'Arsago.
Piccolo di statura e grande di animo, coltissimo pe' tempi suoi, d'un intelletto audace, d'una volontà ferrea e di smisurata ambizione, Ariberto d'Intimiano fu eletto a governare la diocesi milanese, dopo la morte di Arnolfo, nel 1018. E subito apparve quello che era, un uomo determinato a tenere un gran posto nella storia del suo paese; avido di lotte e pronto a sostenerle energicamente contro tutti; atto al comando e desideroso di esercitarlo senza colleghi; innovatore audace e profondo, che a sostegno della propria tirannia non esitava ad impugnare le armi della libertà, ma che di questa tirannia propria aveva così alto concetto da non permettergli di sopportarne alcun'altra, venisse da Imperatori o da Papi.
I Papi, egli li accetta, purchè non si mescolino agli affari della sua Diocesi. Quanto agli Imperatori, vuol farli lui. E però, quando si estingue, colla morte di Enrico II, la famiglia imperiale di Sassonia, e fra i principi italiani ricomincia una gara di ambizioni e di candidature dinastiche, egli si reca difilato in Germania, dove quegli elettori avevano acclamato a loro sovrano Corrado di Salico, duca di Franconia; e, ricevuto a Costanza cogli onori dovuti alla sua dignità, senz'altro riconosce il nuovo principe e lo incorona colle sue proprie mani come re d'Italia3.
Con sì altera disinvoltura non si era usato mai fino allora nominare dei re. Pure, quando Ariberto ritornò, ed in un'assemblea di notabili italiani, convocata nei prati di Roncaglia, diede notizia della nomina così fatta da lui, nessuna voce si alzò a mettere in dubbio il diritto dell'arcivescovo o quello del re. I popolani milanesi riconobbero in Ariberto un padrone, e lo accettarono con gioia, pensando ch'egli avrebbe saputo liberarli dall'unica tirannia lontana e dalle molte vicine. Gli ottimati videro con qualche amarezza che un uomo della loro schiatta e da essi sollevato al principato ecclesiastico facesse così buon mercato delle tradizioni e dei privilegi loro. Suum considerans, non aliorum animum, scrive indispettito il cronista Arnolfo, che ai nobili apparteneva.
Nondimeno, quando Corrado scese nel 1026 in Italia, Milano lo accolse splendidamente, malgrado o forse anzi perchè Pavia gli aveva chiuso le porte in faccia. Ariberto rinnovò in favor suo la cerimonia dell'incoronazione, nella basilica di Sant'Ambrogio; lo accompagnò a Ravenna ed a Roma, dove il Papa gli pose in capo una terza corona, quella dell'Impero; e, sopravvenuta un'estate di straordinario e micidiale calore, lo ospitò largamente per due mesi, con tutta la sua corte, nelle fresche villeggiature episcopali dell'alta Lombardia.
Partito Corrado, e rimasto Ariberto più che mai potente e popolarissimo nel paese, incominciò a svolgere quello che ora si direbbe il suo programma politico; vale a dire un'azione personale piena di scatti, di audacie, di prepotenze; diretta ad abbassare le influenze limitrofe per estollere gigante la propria; oscillante fra Cesare e la democrazia; ma coll'evidente promessa che le due potestà non dovessero avere altro rappresentante, altro programma, altri interessi che i suoi.
Perciò assume contegno di provocazione contro le città vicine, Pavia, Lodi, Cremona; usurpando loro diritti e terre; battendone le forze e umiliandone l'indipendenza. Per ciò largheggia di conforti e di grani, durante una terribile carestia; e visita, con amore e con affettazione, i tuguri popolari, dove lascia elemosine e semina gratitudine. Per ciò offre aiuti militari a Cesare, ingolfatosi in una guerra di successione per la Borgogna; e si unisce a Bonifacio, marchese di Toscana, per ispingere attraverso le Alpi un contingente italiano, che Umberto Biancamano guida su per la valle d'Aosta, e che, sceso nella valle del Rodano, decide efficacemente la contesa in favor di Corrado. Per ciò si bilica fra le parti cittadine, sostenendo i Capitani contro i Valvassori, e Cesare contro i Capitani, e i plebei contro Cesare. Per ciò protegge l'autonomia del clero ambrosiano contro le velleità unificatrici del pontefice romano; e, scomunicato per le sue resistenze, egli, arcivescovo, si ride della scomunica, in un tempo in cui a quest'arma, di mistica onnipotenza, non osavano resistere i maggiori principi della cristianità.
In ogni questione dell'epoca, Ariberto d'Intimiano porta l'elemento delle sue passioni, del suo spirito battagliero, del suo intelletto sovrano; ogni evento pubblico sente le traccie di quella personalità romorosa, inquieta, assorbente; che ha inspirazioni spesso alte e virili, ma che non esita a mutare alleati, principii e combinazioni, secondo le necessità di quella preponderanza individuale, che è la base della sua azione politica, la meta a cui tutto subordina.
Di questo sistema si svolgono intere le fasi nel decennio corso fra il 1035 e il 1045, chiudendosi con un risultato che nè a Cesare, nè ai Capitani, nè ad Ariberto era balenato nell'animo.
Era infatti nel 1035 che i discordi interessi dei Valvassori e dei Capitani scoppiavano ad aperta ostilità. Reduci dalla guerra di Borgogna con maggior sentimento delle proprie forze e dei proprii diritti, i Valvassori accentuarono più vivaci contro i Capitani le loro pretese alla trasmissione ereditaria dei loro feudi. Alle ripulse altere opposero altera resistenza e insorsero armati per le vie. La plebe stette cheta od aiutò mollemente. Sicchè i Capitani ebbero per loro le formidabili influenze dell'arcivescovo e riuscirono a cacciare i Valvassori fuori delle mura. Ma lì il pericolo, invece di cessare, divenne più grave. Afforzati cogli aiuti del contado, pronto sempre a reagire contro la tirannide cittadina, i Valvassori ottennero anche il concorso dei Lodigiani, indispettiti contro Ariberto per le usurpazioni dei loro diritti. Bisognò dunque combattere in aperta campagna, e in soccorso di Ariberto venne con forte schiera il vescovo di Asti, Olderico, zio della famosa contessa Adelaide, che al figlio di Umberto Biancamano avrebbe poi data la gloriosa discendenza della dinastia di Savoia. La battaglia ebbe luogo a Campo Malo, fra Milano e Lodi; la strage fu grande d'ambo le parti e il successo indeciso; ma, essendo rimasto trafitto il vescovo Olderico, la confusione fu tale che i combattenti ritornarono tutti nella città, rioccupando Valvassori e Capitani le loro case, e rimanendo coll'armi al braccio, senza che l'antico dissidio fosse placato o risolto.
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