VII
Ma qui occorre un'altra osservazione. Se questi concetti sono giusti, se veramente il Comune fiorentino è nato in tal modo, dovrebbe avverarsi quello che noi accennavamo sin dal principio, cioè che qualche luce essi dovrebbero gettare sugli avvenimenti posteriori, e ciò varrebbe anche a confermare la verità di quanto abbiam detto fin qui. Vediamo dunque se gli avvenimenti posteriori confermano le considerazioni finora esposte.
Se noi apriamo il Villani, troviamo che il primo periodo della storia fiorentina è una serie di guerre continue contro i castelli. Il territorio era tutto incastellato, esso dice, ed i Fiorentini uscivano ogni primavera a combattere. Quale fu la conseguenza di queste guerre? I castelli vennero demoliti; ma i conti che li abitavano non si potevano uccidere; venivano quindi costretti a vivere in Città almeno una parte dell'anno, il che li sottoponeva alle leggi del Comune. Tutto ciò in sul principio non ebbe grande importanza; ma a poco a poco alterò la cittadinanza fiorentina, introducendovi un elemento feudale, che era nuovo, estraneo al Comune, ed aveva un'origine germanica, rappresentava una società nemica. Così dentro le mura si troveranno ben presto due società avverse, che non potranno vivere insieme: l'una dovrà distruggere l'altra; la guerra civile sarà inevitabile. Questi nobili hanno usi e costumi, tradizioni, educazione diversa assai da quella del popolo. Essi vengono, si asserragliano, si fortificano nei loro palazzi, che sono come castelli dal contado portati dentro la Città. Le stesse ragioni che costrinsero i Fiorentini a combattere i castelli nel contado, li costringeranno a combattere i nuovi palazzi fortificati, che sorgono dentro le mura. La guerra civile non ha origine dal fatto del Buondelmonti; non è conseguenza di odii e vendette personali; è una guerra fatale fra due razze, fra due civiltà, una delle quali non può vivere insieme con l'altra: bisogna che l'una o l'altra scomparisca dalla terra. Questa guerra non è una prova che le passioni individuali dominassero tanto in Firenze da prevalere su tutto; ma è invece una prova che i sentimenti di quegli artigiani erano talmente uniti, concordi e tenaci e che essi avevano una fede così profonda nei loro destini, che si apparecchiavano a combattere dentro la Città, quel nemico, che avevano combattuto fuori di essa.
Giovanni Villani, il quale affermava che il fatto del Buondelmonti, nel 1215, aveva la prima volta diviso la cittadinanza di Firenze, dimenticava di averci precedentemente detto, che nel 1177 la guerra civile era già cominciata per opera dei grandi, cioè degli Uberti, che combatterono sin d'allora il governo consolare. Ciò prova che il fatto del Buondelmonti fu uno di quei tanti episodii, che seguirono spesso in tutti i Comuni del Medio Evo, ma non ebbe una vera importanza politica, perchè non fu causa, ma conseguenza della guerra assai prima incominciata.
Noi abbiamo dunque un secondo periodo nella storia di Firenze, il quale è una lunga serie di guerre e rivoluzioni interne, che portano una serie di trasformazioni sociali e politiche del Comune. Vediamo da una parte i nobili col Podestà alla loro testa, dall'altra il popolo comandato dal suo Capitano. Scopo e fine di questa lotta è la totale distruzione del partito aristocratico, il che seguì nel 1293 con gli Ordinamenti di Giustizia di Giano della Bella, i quali esclusero affatto i Grandi da ogni partecipazione al governo. Tutte queste rivoluzioni hanno di mira uno scopo costante, hanno un'origine comune, si seguono con un ordine determinato. Non è il caso che domina la storia di Firenze, è una legge storica, che risulta dai varii elementi, che costituirono la società fiorentina nel Medio Evo.
Ma, finita che fu la prima serie di rivoluzioni, con gli Ordinamenti di Giano della Bella, non finiva perciò la guerra civile. Come i nobili del contado, demoliti che furono i loro castelli, non scomparvero affatto, ma entrarono dentro la Città; così, esclusi ora dal governo, non per questo scomparvero affatto, ma s'unirono ad una parte del popolo, cioè ai capi delle principali Arti, e si formò il partito delle Arti maggiori contro le minori, del popolo grasso contro il popolo minuto. Questo rappresentava ora la democrazia già avanzata, quello che oggi diremmo il partito radicale: era l'infima plebe, la quale non capiva, perchè essa, che aveva preso parte alle guerre civili contro i nobili, alle battaglie contro i castelli, dovesse rimanere esclusa dal governo. E quindi, se la prima guerra civile era cominciata per escludere i nobili dal governo, la seconda non fu fatta per escluderne il popolo grasso, ma perchè il popolo minuto voleva insieme con esso avervi la sua parte. E come nel 1293 vedemmo l'ultima conseguenza logica del primo periodo, così nel 1378, col tumulto dei Ciompi, abbiamo l'ultima conseguenza logica del secondo, ed il popolo minuto sale finalmente anch'esso al governo, rimanendo in continuo contrasto coi ricchi. La plebe sin dal principio eccedette nei suoi trionfi, ed allora comparvero sulla scena i Medici, i quali, appoggiandosi ad essa, con accortezza impareggiabile, s'impadronirono del governo. E così la Repubblica, dopo quasi un altro secolo di lotte, finalmente cadde.
Questa storia fiorentina, adunque, non è un mistero, non è una serie di rivoluzioni sottoposte al caso; essa è invece chiara come una proposizione geometrica. Le sue rivoluzioni hanno una causa costante; il suo scopo politico è sempre lo stesso. Dal giorno in cui il Comune ha messo la prima pietra, noi possiamo, se studiamo quali sono gli elementi che lo compongono, determinare logicamente, prevedere sicuramente quali saranno le rivoluzioni, cui esso anderà soggetto. Sotto i Medici noi troviamo che sono scomparse le Consorterie, la cui distruzione era in fatti cominciata sin dal 1293. Troviamo che le Arti ancora esistono, ma hanno perduto ogni importanza politica; vediamo un governo forte, accentrato; una società che par quasi una società moderna. Una grande uguaglianza civile apparisce per tutto; non più classi, nè gruppi separati ed ostili; non titoli di nobiltà; non privilegi di alcuna sorte; dagli ultimi si può salire, a forza d'ingegno, ai supremi gradi sociali. Sotto un tale aspetto può dirsi che il Comune abbia raggiunto il fine cui aveva sempre mirato, abbia ottenuto un vero trionfo.
VIII
Ma questa, pur troppo, è un'ora funesta per lo spirito italiano; è l'ora in cui incominciano la nostra corruzione e la nostra decadenza. La società del Medio Evo più non esiste. Quelle associazioni a cui gli uomini erano stati così affezionati, fra le quali avevano vissuto, per le quali avevano combattuto ed erano morti, si sono disciolte; ma la nazione non si è ancora formata. La piccola patria più non esiste, la nuova ancora non si è formata. L'uomo del Medio Evo è scomparso, e l'uomo moderno è nato, l'uomo, cioè, che deve fidare nelle sole sue forze, nel solo suo ingegno, nella sola sua operosità; ma esso è nato prima che si sia costituita la nazione. La conseguenza è che l'Italiano di questo nuovo periodo, che si chiama il Rinascimento, si trova come ad un tratto isolato nel mondo. Egli non può fidare in altri che in sè stesso, egli non ha nessuno per cui vivere, nè c'è alcuno che viva per lui. Egli si abbandona quindi al suo egoismo personale, nel momento stesso in cui si aumentano, si acuiscono le forze della sua attività e del suo ingegno. La decadenza morale incomincia quando il progresso intellettuale continua più rapido che mai. E noi abbiamo un popolo, in cui la cultura progredisce, in cui la scienza s'innalza, ma nel quale il livello morale continuamente, rapidamente si abbassa. La nostra splendida letteratura rivela anch'essa questa morale decadenza. Noi vediamo apparire sulle labbra dell'Italiano quel cinico sorriso, che ci è così spesso descritto nelle nostre commedie, nelle nostre novelle, in cui si beffeggiano le cose più sante, e l'amore è privo d'ogni sentimento davvero umano, e tutti gli affetti più nobili sono scomparsi, quando non sono derisi. Lo scrittore somiglia allora a quei romanzieri moderni, i quali, descrivendo il demi-monde, credono di descrivere il mondo. E noi vediamo quegli accorti politici italiani, che sono i maestri di tutti in Europa, che rappresentano