Però, v'è un aspetto del problema che può mitigar la fatica di questo studio. È una soddisfazione di pensiero che non può sembrar vana al filosofo, se anche lascia indifferente l'artista. Poichè nello studio delle origini assai più che nello spettacolo delle decadenze l'orgoglio dell'umanesimo trova ragion di affermarsi.
Le origini non sono altro, storicamente, che i periodi nei quali le istituzioni umane, di qualunque natura, passano dallo stadio anarchico ad una forma organica. Ora, difficilmente questa trasformazione si manifesta, senza l'impulso della virtù. Virtù d'uomo o virtù di popolo; genio di individui o istinto di moltitudini; energia d'iniziative, quand'anche macchiate dalla fatalità del delitto, o devozioni di concordia, quand'anche rese inefficaci da difetto di previdenza.
Il fenomeno può dirsi costante, in quanto si riferisca alle origini dei poteri pubblici, siano monarcati, comuni e repubbliche. Sembra quasi che la Provvidenza abbia voluto imprimere a questi periodi, che rasentano in certo modo lo sforzo della creazione, quel carattere di grandezza che necessariamente segue o circonda i creatori. Così, non si può pensare alle origini della monarchia francese senza risalire a quel Carlo Martello, che rimane nelle fantasie popolari come il tipo del guerriero nazionale invincibile. Ruggero il normanno e Umberto Biancamano dominano della loro fiera e simpatica personalità le origini dei due maggiori principati italiani. Nè la fondazione della monarchia spagnuola può disgiungersi da quel generoso nucleo di patrioti, raccoltisi con Pelagio sui monti baschi a costituire il battaglione sacro della resistenza nazionale. Nè la storia grande della repubblica di Venezia può farci obliare quell'energico esodo di pescatori che giurano di mantenere, sulle palafitte di Rialto, la loro libertà insidiata dalle orde conquistatrici della terra-ferma.
È sopratutto nel secolo undecimo che l'Italia vede sorgere a vita organica parecchie delle sue agglomerazioni politiche. Prima del mille, qualche tentativo di ricostituzione serve quasi unicamente a confermare lo stato di dissoluzione in cui langue tutta la penisola. Non s'è ancora dimenticata l'ultima violenza delle invasioni barbariche ed ecco sopraggiungere a disgregare ogni compagine sociale la preoccupazione del finimondo. Le lotte civili, accanite negli ultimi tempi, vanno perdendo d'intensità, non perchè scemi l'abitudine delle offese, ma perchè tutti sono intenti al pericolo della fine suprema, che le profezie popolari hanno segnalato.
Come il feudo era stato lo strascico della conquista, così il beneficio ecclesiastico diventa lo strascico lasciato dalla paura del finimondo. Le autorità secolari, che non possono garantire la vita eterna, perdono d'influenza; ne acquistano a dismisura le autorità chiesastiche, nelle cui mani stanno le chiavi del perdono e della salvezza. Così il potere politico viene a poco a poco assunto dagli arcivescovi, contro i quali non hanno più forza i conti e i duchi, lasciati dai conquistatori stranieri a rappresentanti dell'impero feudale nelle città. Le donazioni arricchiscono preti e monasteri, che dalla ricchezza traggono facile stimolo alla corruzione. Ed ecco preparate le due questioni che nel secolo undecimo agiteranno l'Italia. La lotta per le investiture e la riforma disciplinare del clero. Nè dal mille è lontano Gregorio VII, che di entrambe le questioni sarà nel tempo stesso il più formidabile campione e la più illustre vittima.
Senonchè il pauroso millenio è superato senza catastrofi e il mondo comincia ad acquetarsi nel pensiero della propria continuazione. Che cosa accade? che i pochi, fatti potenti dalla superstizione, mirano a rassodare e rendere più completo il loro dominio; che i molti, costretti a vivere dopo aver creduto di morire, rimpiangono la cecità loro e le sostanze stremate; che il disagio turba profondamente le classi popolari, le quali escono dalla crisi, sentendosi sul collo il giogo rinnovato di due tirannie. Intanto ricompaiono le discordie intestine, le lotte feudali, che soltanto il timore della distruzione universale aveva frenate. Le ingordigie e le violenze si danno ad eccessi tanto maggiori quanto più lunga è stata l'epoca della loro forzata inazione. In questa ridda di passioni scompare ogni benessere di plebi, ogni generosità di ottimati; la legge è fatta ludibrio nelle mani di ogni forte; e il forte di oggi diventa lo sconfitto del giorno dopo. Tutto questo ha un solo risultato, una sola caratteristica, un solo nome: è l'anarchia.
Di qui nasce, nel secolo undecimo, quella reazione salutare che dà vita ai principati ereditari ed alle repubbliche comunali. Così l'una come l'altra forma organica è accetta alle moltitudini, delle quali ordinariamente soltanto il caso dispone. Poichè non bisogna illudersi che alle costituzioni cittadine del secolo undecimo abbia spinto un prepotente bisogno di libertà. Il bisogno prepotente era l'ordine, era la fine dell'anarchia. Dove il genio o la prepotenza d'un uomo bastasse a dare questa sicurezza di governo organico, le popolazioni accettavano anche la tirannia d'un solo, purchè le liberasse dalla tirannia dei molti. Se l'uomo mancava, o il genio non faceva perdonare la prepotenza, le moltitudini cercavano alla libertà il modo di vincere l'anarchia. Ma ci sono voluti dei secoli – forse ce ne vorranno ancora – perchè la libertà, accettata come il veicolo di un beneficio, diventasse un beneficio per sè. Quelle moltitudini, che nel secolo undecimo avevano saputo disciplinare gli ordigni della libertà, non esitarono a romperli, quando appena un'impressione momentanea portava verso altri orizzonti l'animo loro. La storia può essere interpretata, ma alla storia non può sostituirsi il desiderio. Il vero è che nei nostri grandi Comuni, se della libertà mancò rare volte l'intelligenza, quasi sempre mancò l'amore. Il vero è che nel sagace desiderio dell'ordine, le moltitudini italiane oscillarono spesso e spontaneamente fra i poteri autonomi e i principati sovrani. Poichè non sempre furono i tiranni che strozzarono le libertà; qualche volta le libertà si sono umiliate ai tiranni.
Una riprova di queste induzioni la si troverebbe con poco sforzo nella storia di uno dei maggiori municipi d'Italia; di quello che per la sua giacitura ha subìto prima degli altri, e forse più gravemente d'ogni altro, lo storico avvicendamento delle invasioni, delle liberazioni e delle tirannidi.
Intendo parlare di Milano.
Al principio dell'undecimo secolo Milano era forse una delle più popolose città d'Europa, e, senza forse, la più popolosa d'Italia. Era già stata a quell'epoca due volte nella polvere e due volte sugli altari. Nel secolo quarto, come sede del Vicario d'Italia, era considerata la seconda città dell'impero Romano. Il ferocissimo Uraja, condottiero dei Goti, vi sterminò più di 30 mila abitanti e fece della marmorea città un mucchio di rovine. Per tre secoli Milano sparisce quasi dalla storia e perde quei privilegi, che invece usurpano, come più floride, Pavia e Monza. La sola influenza che vi rimane grande è quella dell'arcivescovo; influenza che, per l'indole sua, subiva poco le fluttuazioni della prosperità materiale, conservando quel principato diocesano che si estendeva sopra 24 vescovati suffraganei e sopra un territorio che andava da Genova a Coira, da Mantova a Torino.
Ed è un arcivescovo, che nel secolo nono ritorna a floridezza e splendore le condizioni di Milano, venute lentamente migliorando sotto il regime dei Longobardi e dei Franchi. Ansperto da Biassono, probabilmente uscito dall'antichissima famiglia dei Gonfalonieri, governò per tredici anni, dall'868 all'881, la sede milanese; vi esercitò potere largo e benefico; mantenne contegno vigoroso contro le pretese di un pessimo Papa, Giovanni VIII; e rialzò, completandola, l'antica cerchia murata, già eretta dall'imperatore Massimiliano e demolita dai Goti. Questo bastò perchè fra gli abitanti della Lombardia, atterriti dalle frequenti scorrerie degli Ungheri e dall'imperversar dei banditi, si determinasse un vasto moto di emigrazione verso la città, dove quelle nuove e solide difese garantivano la vita e gli averi. Rapidamente la popolazione di Milano aumentò; sicchè nel secolo undecimo poteva calcolarsi, secondo il Cibrario, a trecentomila abitanti.
Questa però era prosperità materiale; che non toglieva l'anarchia delle prevalenze politiche, il mutabile avvicendarsi degli ordinamenti, la moltiplicità dei despotismi e delle giurisdizioni, la tradizione ostinata delle civiche turbolenze.
Cominciava l'incertezza nella stessa persona del sovrano legale. Ogni morte di principe dava occasione a più guerre, ed ogni volta si mutava la base elettorale o la forma di consacrazione del nuovo Re.
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