Va anche chiarito che il lavoro dello storico, per quanto accurato esso sia, è un continuo divenire e non termina mai. Lo storico è alla costante ricerca di nuovi documenti e d’inedite interpretazioni di quelli già noti, fonti che devono essere sottoposte a un’incessante analisi critica. Un serio studioso deve, però, avere la piena consapevolezza che, per quanto le sue ricerche saranno accurate, le fonti utilizzate –sia archivistiche, sia letterarie, sia iconografiche, sia cartografiche, sia bibliografiche, sia quelle più attuali delle grandi «banche dati»– saranno molteplici e continuamente tra loro poste a confronto, esisterà sempre la possibilità che altri documenti o altri modi e metodi d’approccio all’analisi potranno in futuro modificare anche sostanzialmente le conclusioni alle quali è giunto con il suo lavoro. Le nuove ricerche non toglieranno valore a quelle che le hanno precedute, ma saranno in grado di fare luce su diversi aspetti, su differenti comportamenti d’individui, gruppi, ceti, istituzioni, arricchendo il livello della conoscenza della collettività civile, dando nuovo peso a strutture ed elementi economici, sociali, politici e culturali dei quali a volte, anche nella memoria collettiva, si è perso il significato e il valore.
Va anche aggiunto che la storia non è semplicemente una scienza che studia il passato, è soprattutto un ambito culturale tramite il quale si possono comprendere le differenti opzioni che gli uomini che ci hanno preceduto hanno effettuato nel variare del tempo, dello spazio e delle loro esigenze, al fine di far sì che nel presente gli individui e le istituzioni siano in grado di effettuare le proprie scelte con maggiore consapevolezza. Se ciò è vero per la storia generale lo è ancor più per la storia economica e lo è stato in tempi passati anche per l’economia, basti ricordare la nota affermazione di John Maynard Keynes: «l’economista deve studiare il presente alla luce del passato per fini che hanno a che fare con il futuro».3 Sono convinto che un’indagine per essere effettivamente di natura storico-economica debba fare essenzialmente uso di strumenti concettuali, di categorie analitiche, di tipo di logica propri della teoria economica. Come ebbe a sottolineare Luigi Einaudi, «Per scrivere storia economica o per elaborare […] gli scarsi materiali del passato, non occorre davvero una raffinata preparazione matematica. L’essenziale è di essersi fabbricata una testa atta a comprendere in che cosa consista il problema economico, a snidarlo di mezzo alla farragine di fatti o dati secondari, di dottrine inconsistenti, artefatte o ridicole».4 In ciò lo storico economico come soggetto e la storia economica come disciplina, a mio avviso, hanno stretti rapporti con l’economista teorico, anche se quest’ultimo, purtroppo, è sempre più attratto dalle previsioni utili al futuro e tende a limitare il numero delle variabili da prendere in considerazione.
Occorrerebbe ricordare che nel significato originario del termine storia economica il sostantivo è ‘storia’ e l’aggettivo è ‘economica’. Il che comporta che in questo ambito di ricerca bisogna leggere il passato, con tutta la sua complessità e i suoi problemi, muovendo da fatti, eventi, andamenti, congiunture di carattere economico, interpretati alla luce delle teorie che avevano fatto sì che quegli eventi si realizzassero, si potessero controllare o anche indirizzare verso nuovi orizzonti, senza però tralasciare l’esigenza di comprendere perché e in qual modo gli andamenti dell’economia in ogni tempo e in ogni spazio siano stati condizionati da una pluralità di fattori, anche di natura non economica, e in primo luogo dal potere politico e da quel sistema di valori che connota ogni civiltà in una data fase temporale e in un determinato contesto spaziale. È anche indispensabile che i dati raccolti possano essere inseriti in delle serie quantitative, utili a porre in evidenza le fasi di crescita, di declino e/o di stasi dei fenomeni che vengono sottoposti all’analisi.
Va anche sottolineato che spesso nell’utilizzazione dei dati quantitativi vi è una distinzione tra gli storici generali e gli storici economici. Per lo storico generale, che tende ad adoperare come categorie principali della sua analisi la politica, le istituzioni e la cultura, i dati strutturali sono essenzialmente uno strumento per contribuire alla ricostruzione degli eventi di una data epoca e per comprendere meglio l’operato delle istituzioni e il determinarsi dei rapporti sociali. Per lo storico economico gli stessi dati strutturali sono la base di partenza imprescindibile per indagare su un determinato sistema economico, sull’andamento e sul determinarsi dei cicli, delle fasi di espansione, regressione, ristagno, sviluppo, sono le variabili storiche da applicare a un modello teorico, onde comprendere la funzionalità dello strumento concettuale della teoria. In tal senso, anche in relazione alle indagini sul Medioevo, non è l’inserimento di dati quantitativi nell’analisi che distingue il lavoro di un medievista puro da quello di uno storico economico del Medioevo, ma il metodo e la finalità dell’indagine.
Se accettiamo questa sorta di postulato –ma so bene che molti storici generali e forse anche studiosi ufficialmente addetti alla storia economica non condividono la mia ipotesi– la storia economica come disciplina e gli storici economici come ricercatori hanno più stretti rapporti con i teorici dell’economia che con gli storici in senso lato. Anche se va sottolineato che tra economisti e storici economici esistono delle differenze, che si sono andate approfondendo con il tempo e specialmente si sono acuite negli ultimi decenni. Questi divari d’impostazione metodologica hanno portato le metodologie degli storici e degli economisti a divergere: mi riferisco al periodo breve o lungo che viene posto a base dell’analisi; a un certo carattere di ripetibilità, direi di supposta razionalità, che l’economista tende ad attribuire alle sue variabili; all’esigenza propria dello storico economico di dover tenere continuamente presente la variabile istituzionale-sociale.
Detto tutto ciò, a mio avviso, va ulteriormente sottolineato che per comprendere la reale struttura del passato, le sue coordinate, i suoi cicli, la sua evoluzione, occorre necessariamente aver chiare quali siano le categorie dominanti della nostra ricerca, altrimenti si rischia di frammentare la civiltà che intendiamo studiare e la sua organizzazione di produzione, di scambio e di consumo in una miriade di piccoli settori che, per quanto singolarmente interessanti, non consentono di cogliere i tratti salienti di quella data spazialità e diacronia in cui determinati uomini sono vissuti, né di effettuare comparazioni spaziali e temporali, senza le quali la nostra ricerca non ha ragione di essere. Non bisogna nemmeno dimenticare, come ha sottolineato C.M. Cipolla, che lo storico economico, a differenza dell’economista teorico, per comprendere una data epoca e i suoi uomini, «deve prendere in considerazione tutte le variabili, tutti gli elementi, tutti i fattori in gioco. E non solo le variabili ed i fattori economici». Aggiungendo che «in altre parole, lo storico economico deve tener conto di tutte le n variabili di una data situazione storica»,5 perfino del comportamento a volte irrazionale degli uomini vissuti in una data epoca, influenzati da credenze e paure.
Come scriveva J.A. Schumpeter, per chiarire il valore fondamentale della storia anche per l’economista,