Se fino a tutti gli anni ‘70, gli studiosi facenti capo a qualsiasi branca disciplinare in ambito storico, che all’epoca venivano considerati come appartenenti alle «giovani generazioni», erano stati fortemente influenzati dalla storiografia francese collegata alla Scuola delle «Annales», proprio fra fine anni ‘70 e inizi ‘80 l’interesse dei «nuovi» storici economici si indirizzò verso le tematiche e le metodologie affermatesi già negli anni ‘60 negli U.S.A e in area anglosassone in genere.20 Come ebbe a sottolineare C.M. Cipolla, «In questi paesi [quelli di cultura anglosassone] una cultura economica più diffusa, una abitudine al più corretto uso di termini economici (in buona parte coniati nella lingua inglese) nel linguaggio quotidiano, fecero sì che anche gli storici economici che non avevano una particolare preparazione economicista fossero sovente in grado di impiantare discorsi che non solo storicamente, ma anche dal punto di vista della logica economica, non prestavano il fianco a critiche severe. E fu appunto […] negli Stati Uniti che si verificò la reazione più drastica al tradizionale modo di fare la storia economica».21 Notava criticamente lo stesso Cipolla che questi nuovi storici economici:22
avvertono molto meno dei loro colleghi di formazione più prettamente storica la necessità di mediazione con le fonti e, preoccupati soprattutto del «modello» teorico presentato, non esitano a forzare le cose insistendo nel porre domande che trovano riscontro nei dibattiti di moda della teoria […] Non trovando nelle fonti delle epoche di cui si occupano i dati storici necessari, fanno acrobazie e in più di un caso ricorrono a dati sostitutivi […] Si producono così spesso lavori che, perfettamente ammirevoli per la eleganza logica del «modello» teorico interpretativo e per l’ingegnosità dell’apparato statistico, rimangono creature dai piedi di argilla […].
La cliometria e l’econometria iniziarono a conquistare pagine di saggi su riviste e di volumi. L’utilizzazione di «modelli» andò diffondendosi a ritmo crescente. Una consistente quota parte degli studiosi gradatamente divenne meno «storica» e più «economica». Da una Storia economica si passò spesso a un’Economia storica, per poi gradatamente abbandonare anche l’analisi storica in senso stretto. I dati del passato, con maggiore interesse per quelli quantitativi che per quelli qualitativi, divennero sempre più utili per sostenere o per confermare delle tesi astratte di economisti teorici. Per questi nuovi settori d’indagine storica le fonti archivistiche tradizionali vennero a perdere d’importanza. La forte connotazione economica delle ricerche richiedeva il ricorso a grandi banche dati, il che fu favorito dalla larga diffusione dei computers e successivamente dalla possibilità per gli studiosi di reperire dati tramite internet. Tempi e spazi si andarono così dilatando, in modo impensabile fino a quel momento. Gli archivi italiani ed europei in genere, specialmente quelli di stato, videro le loro sale di studio divenire sempre più ambiti desertificati, in quanto i docenti non solo li utilizzavano poco per le loro ricerche (o spesso non li consultavano affatto), ma non obbligavano più nemmeno i loro studenti a frequentarli per tesi di laurea o di dottorato. Carotaggi del ghiaccio in Groenlandia divennero fonte utile per studiare le variazioni climatiche di secoli passati e le conseguenti produzioni agricole in spazi differenziati; analisi su scheletri di millenni fa consentirono di comprendere il tipo di cibo e di calorie che quei soggetti avevano ingerito, in modo di metterli a confronto con quelle di operai del sec. XIX o con il variare delle risorse energetiche utili a produrre i beni;23 le formulazioni utili ad analizzare il calcolo attuale del Pil vennero utilizzate per studiare, pur con pochi dati disponibili, il prodotto interno lordo di società di centinaia di anni fa; tanto per fare solo qualche esempio. La storia economica non fu più «la scienza degli uomini nel tempo», ma tese ad assumere una nuova fisionomia e una nuova funzione, quella di verificare con dati di un lungo passato, spesso anche assai remoto, la valenza di recenti teorizzazioni di economisti puri. Ciò che spesso scomparve da questi nuovi studi, pur così stimolanti e intelligenti, furono due elementi base che fino ad allora a partire da Tucidite avevano connotato la Storia, ossia: gli «uomini», ridotti a numeri e a entità astratte; e le categorie «spazio/tempo» che erano sempre sembrate essere la base di ogni ricerca storica. Tanto da far affermare a C.M. Cipolla: «L’eliminazione dell’individuo rappresenta una delle più gravi lacune nella storiografia economica corrente ed uno degli elementi che contribuiscono al suo peccato originale di semplicismo».24
Queste variazioni d’interesse storiografico e queste trasformazioni pur parziali degli «storici economici» in «economisti storici» non furono certo totali. Accanto a questi nuovi studi continuarono e continuano ad apparire ottimi lavori di storia economica fondati in primo luogo sulle fonti archivistiche, basti pensare a titolo di esempio a un fondamentale lavoro di storia economica di un collega statunitense R.A. Goldthwaite, The Economy of Renaissance Florence, apparso recentemente anche in edizione italiana per i tipi di Il Mulino.25 Come vorrei ricordare un libro di storia economica che io ho molto amato quello di Steven Marcus, Engels, Manchester e la classe lavoratrice, tradotto in italiano da Luca Fontana e apparso per i tipi di Einaudi nel 1980; lavoro ove le fonti principali sono quelle letterarie, come i testi di Charles Dikens, Thomas Carlyle, Cyrus Redding e tanti altri letterati che trattano delle coke towns e delle condizioni di vita dei lavoratori.26 Anche io, a volte, nei miei studi, ho preferito privilegiare il ricorso a fonti apparentemente non di natura economica, ossia quelle di natura cronachistica, letteraria e iconografica, volendo studiare delle tematiche di storia economica, in quanto mi è parso che le stesse, pur nell’ovvia mediazione culturale dei vari autori, permettessero di indagare in maniera più complessiva sul determinarsi e concretizzarsi di modi comportamentali, direttamente connessi a tematiche economiche, sociali e politiche, che nel corso del tempo si sono venuti affermando. Ma ripeto sono pienamente convinto che lo storico non possa né debba mai utilizzare una sola fonte nei propri lavori, ma sempre una pluralità delle stesse da mettere a confronto e da sottoporre a una serrata analisi critica.
Se gli storici economici nella maggior parte dei casi hanno da decenni ormai abbandonato il Medioevo come arco cronologico delle proprie analisi, va sottolineato che al contrario molti medievisti puri hanno dedicato larga parte dei propri studi a tematiche economiche, come ad esempio il commercio, la banca, la struttura e la vita nelle campagne e negli aggregati umani, ecc. Ma va ancora una volta posto in luce che anche se questi lavori, pur di grande interesse, hanno determinato una svolta nella medievistica italiana e internazionale, grazie proprio all’arricchimento che agli stessi è stato dato dall’apporto dell’indagine su fonti economiche e quantitative, a tutt’oggi può notarsi nei singoli autori una carenza di formazione teorico-economica.
Vorrei concludere affermando che io, pur essendo stato a volte critico con le nuove tematiche e impostazioni della storia economica –basti far riferimento alla mia relazione nel citato convegno datiniano dedicato a Dove va la storia economica?, e al mio contributo al dibattito nel convegno Le iterazioni fra economia e ambiente biologico nell’Europa preindustriale secc. XIII-XVIII–27 e pur avendo ormai raggiunto la veneranda età di 75 anni, mosso dalla mia consueta curiosità sono molto attratto da questi studi condotti con una metodologia così distante da quella che avevo appreso e che ho cercato di utilizzare nei miei lavori. Trovo che nel variare del tempo e dei bisogni della società, anche in ambito culturale, questi nuovi metodi e approcci possano essere di grande utilità,