I rapidi cenni di cui sopra vogliono solo sottolineare l’esigenza che ogni analisi economica quando dallo short run passa al long run necessita di una puntuale e documentata analisi storica, sotto pena di cadere nell’astrattezza propria degli economisti teorici (oggi purtroppo spesso diffusa anche nella più recente storiografia di natura economica) di attribuire un supposto carattere di ripetibilità, di razionalità alle variabili prese in esame nel modello teorico.
I richiami effettuati vogliono anche porre in evidenza il fatto che le teorie economiche non possono essere considerate in astratto rispetto alle realtà oggetto di analisi, altrimenti si determinano delle forzature e non si riesce a comprendere con chiarezza la valenza che un dato sistema economico ebbe per un aggregato sociale, che quel sistema economico pose in atto, con maggiore o minore consapevolezza e teorizzazione, ma sempre per ottenere il massimo risultato in base ai mezzi, alle risorse e alle capacità disponibili. Massimizzazione che, a sua volta, andò a favore di cerchie ristrette o ampie di soggetti, a secondo dei rapporti di dipendenza e dei gradi di libertà, che un determinato sistema politico-istituzionale volle assicurare ai suoi componenti.
Va inoltre sottolineato con fermezza che, se per effettuare delle valide analisi storico-economiche in relazione all’età medievale è indispensabile che il ricercatore si doti di una salda preparazione economica, è però altrettanto necessario che lo stesso abbia una buona formazione culturale in campo politico-istituzionale, sappia correttamente analizzare fonti in latino o nei vari idiomi volgari che andarono gradatamente affermandosi, si doti di una buona conoscenza paleografica e diplomatica. Solo grazie a questa duplice formazione culturale (economica e umanistica) il ricercatore sarà in grado di dominare le fonti, di porre alle stesse le domande utili a poter soddisfare gli elementi di fondo del tema che vuole indagare.
L’importanza fondamentale dello studio sistematico delle fonti di archivio nell’analisi storica e particolarmente nella storia economica ha spinto schiere di studiosi fino a tutti gli anni ‘70 e agli inizi degli ‘80 del sec. XX, come si è detto, a effettuare lavori estremamente minuziosi, che spesso avevano però il difetto di concentrarsi solo su tempi brevi, spazi limitati e avvertivano poco l’esigenza dell’analisi comparativa spazio/temporale. Anche agli studenti che chiedevano una tesi di laurea in storia economica i docenti indicavano fonti di archivio ancora inesplorate sulle quali impegnarsi nello studio di un qualcosa che doveva avere il carattere di originalità, proprio in quanto non già analizzato da altri studiosi. Il che comportava necessariamente, che, malgrado il lungo lavoro sulle fonti archivistiche, gli studi si concentrassero su tempi e spazi di breve durata.
Ma, come notava già nel 1969 Fernand Braudel:14
La recente rottura con le forme tradizionali della storiografia del XIX secolo […] è andata a beneficio della storia economica e sociale, e a detrimento della storia politica. […] Ma soprattutto c’è stata un’alterazione del tempo storico tradizionale. Un giorno, un anno potevano sembrare ieri delle buone misure ad uno storico politico. Il tempo era come una somma di giornate. Ma una curva dei prezzi, una progressione demografica, il movimento dei salari, le variazioni del tasso di interesse, lo studio (più immaginato che attuato) della produzione, una serrata analisi della circolazione richiedono più ampie misure, un’altra scala.
Lavori pur di grande interesse come quelli di Sapori, di Luzzatto, di Melis e dei loro allievi, tanto per fare solo degli esempi di autori italiani noti a tutti (o almeno a quelli della mia generazione), si riempivano di trascrizioni di documenti d’archivio, di dati, di tabelle, a volte erano perfino quasi solo composti di tabelle –come alcuni volumi pubblicati da Giuffré sotto la direzione di Luigi Dal Pane–;15 gli stessi autori disquisivano spesso sull’esigenza di effettuare analisi per totalità dei dati disponibili o di far ricorso a campionature, più o meno matematicamente determinate.16 Gli storici economici, a differenza degli storici generali, posero in luce sempre più l’esigenza di disporre di serie quantitative utili a far luce su costi, ricavi, prezzi, salari, andamenti di produzioni e di cicli commerciali. Come sottolineava Witold Kula, ciò che distingueva il lavoro dello storico economico da quello dello storico generale era che per il primo «La rilevazione di un singolo prezzo di una data merce non solo non è interessante, ma è addirittura incomprensibile, se non può essere inserito in una serie di altri rilevamenti di prezzi, della stessa e di altre merci, aventi una certa continuità temporale». Questo, sempre secondo il grande storico polacco, «ha notevoli conseguenze per il lavoro dello storico economico, che si presenta assai più impegnativo e che consente minori possibilità in ordine alla pubblicazione di raccolte di fonti. Tanto più che queste raccolte non possono tendere all’esaurimento del materiale, ma solamente tentar di raggiungere un elevato grado di rappresentatività e tipizzazione. (Aggiungendo) Non si eliminerebbe, pertanto, la necessità, per il futuro ricercatore, di risalire di nuovo ai documenti originali».17
Ma il problema di fondo fino a tutti gli anni ‘80, come ebbe a sottolineare acutamente C.M. Cipolla,18 fu che
La scuola economico giuridica fu nel complesso molto storica, molto giuridica ed inadeguatamente economica nel senso che si distinse per lo studio preciso delle istituzioni giuridiche, ma mancò di esplicitare adeguatamente i paradigmi economici che poneva alla base della interpretazione dei fatti economici, i quali paradigmi quando il lettore si fa sforzo di enuclearli dal contesto della narrazione li trova il più sovente rozzi e spesso inconsistenti. Alphons Dopsch, Henry Pirenne, Gioacchino Volpe, Marc Bloch, Armando Sapori, per non citare che i nomi più famosi, appartennero tutti a questa corrente cui appartenne sostanzialmente anche Gino Luzzatto con una caratteristica però tutta sua: che lui si era interessato vivamente alla polemica metodologica tedesca della fine dell’0ttocento, che lui, nella sua indefessa operosità, aveva letto e continuava a leggere i maggiori contributi degli economisti teorici.
A partire proprio, però, dagli anni ‘70 e dagli ‘80, dopo i movimenti di studenti e lavoratori e i conseguenti sostanziali mutamenti in campo economico e sociale, da più parti s’iniziò a teorizzare che la storia in tutte le sue declinazioni non fosse più rilevante. Si ritenne che solo la storia strettamente contemporanea o almeno quella successiva alla rivoluzione industriale potesse ancora essere utilmente indagata.
La società contemporanea, con le sue rapidissime modificazioni che fanno sì che ogni elemento diventi rapidamente obsoleto, sembrò in gran parte aver dimenticato l’importante funzione della storia. Solo il presente e il suo continuo mutare apparve dotato di interesse. Il passato, particolarmente per le giovani generazioni, iniziò a divenire privo di attrattiva e di presunta utilità. Un famoso piccolo testo di Jean Chesneaux, del 1976, ebbe il rivoluzionario titolo: Du passé faisons table rase? A propos de l’histoire et des historiens. Scriveva Chesneaux:19
Dans la lutte contre l’ordre établi, refuser le passé et ses images d’oppression est une tendance naturelle. […] Mais le refus du passé n’exclut pas le recours au passé. […] La volonté de libérer le passé, de s’appuyer sur lui pour affirmer l’identité nationale, est aussi forte dans les mouvements de libération du tiers monde au XXe siècle. […] Il faut, et cela bouleverse plus encore nos habitudes, prendre conscience du fait que la réflexion historique est régressive, qu’elle fonctionne normalement à partir du présent, à contre-courant du flux du temps, et que c’est sa raison d’être fondamentale.
Spinti dai bisogni e dalle esigenze della società industriale, che iniziava a porre in luce i suoi elementi interni di crisi, l’attenzione degli storici si rivolse a studiare in campo sociale la condizione delle masse lavoratrici, in campo più strettamente