Parecchie volte su queste colonne fu detto che la nostra violenza doveva essere cavalleresca, aristocratica, chirurgica, e quindi, in un certo senso, umana. Ma fu detto invano. Qua e là la violenza di individui e di gruppi fascisti ha assunto in questi ultimi tempi caratteri assolutamente antagonistici con lo spirito del fascismo. Lo sviluppo del movimento provocava la crisi della disciplina nella sua compagine. Per ovviare ai pericoli mortali di questa crisi, mortali per la nazione e per il fascismo, una serie di misure si imponeva e sono quelle che su mia proposta sono state accettate all’unanimità nell’ultima seduta del Consiglio nazionale. Dall’esito di queste misure, che dovranno essere immediatamente applicate, dipenderà il mio atteggiamento futuro. Nessuno, spero, vorrà contestarmi il diritto di vigilare sulle sorti di un movimento che fu fondato da me e sorretto da me nei tempi felici e in quelli tempestosi. Si tratta di ristabilire prontissimamente il senso della disciplina individuale e collettiva, ricordando che in un paese come l’Italia, anarcoide nelle tendenze e negli spiriti, il fascismo si annunziò come un movimento di restaurazione della disciplina. Ora non si può pretendere di imporre una disciplina alla nazione se non si è capaci dell’autodisciplina.
Una circolare a tutti i Fasci, che sarà resa di pubblica ragione, perché siamo ancora troppo forti per masturbarci nelle ridicole clandestinità di Pulcinella, fissa le nuove, severe norme della nostra disciplina. Chi non le accetta, se ne andrà. In Italia c’è posto per tutti. Ma è necessario stabilire che le violenze di ordine individuale, quando non siano legittimate dalla difesa, non sono aristocratiche e quindi non sono fasciste. È necessario proclamare senza equivoci che, meno casi imprevedibili, non si deve rispondere con rappresaglie di ordine collettivo ad offese di ordine individuale, poiché questa tattica ci ha enormemente danneggiato scatenando ondate di odio e di incomprensione contro di noi. È necessario subitissimo che i direttori dei Fasci rivedano con la massima diligenza il ruolino degli iscritti per allontanare senza remissione tutte le scorie, tutti gli incerti, tutti gli indisciplinati, tutti coloro, in una parola, che rappresentano una passività per il fascismo.
È necessario che le funzioni delicatissime del comando delle squadre siano affidate ad uomini che abbiano attitudini al comando e cioè sangue freddo, coraggio ed alto senso di responsabilità. Di altri provvedimenti minori non è il caso di parlare. Tutto ciò è indipendente dal risultato delle trattative di pacificazione. Che si arrivi o no alla conclusione di queste trattative, i provvedimenti che abbiamo elencati si impongono.
I fascisti tutti comprendono la necessità di agire per ridare al nostro movimento la sua piena efficenza morale e materiale.
Nello stesso tempo l’adunata a Milano di tutta la stampa fascista, la utilizzazione dei deputati a scopo di propaganda, le adunate delle federazioni provinciali, serviranno a coordinare il nostro movimento.
Io ho piena fiducia che il fascismo italiano supererà questa che non è una crisi tendenziale, come quelle che affliggono perennemente i partiti dogmatici, ma una crisi interna di disciplina. I nemici o i tepidi amici avranno, io spero, occasione di disingannarsi nelle loro previsioni catastrofiche circa l’avvenire del movimento fascista. I nostri indimenticabili morti, meravigliose giovinezze che non è lecito buttare leggermente allo sbaraglio, c’impongono il comandamento dell’ora: obbedire. E soprattutto ci dicono che la «fazione» non deve assassinare la «nazione» e che, al di sopra degli odi, degli amori e delle passioni, la realtà suprema ha un nome solo: Italia!
MUSSOLINI
Da Il Popolo d’Italia, N. 176, 24 luglio 1921, VIII.
FATTO COMPIUTO
ROMA, 2, notte
Il trattato di pacificazione fra i Fasci italiani di Combattimento e le rappresentanze della direzione del Partito Socialista Italiano e della Confederazione Generale del Lavoro è stato firmato. È dunque un fatto compiuto.
A tale risultato si è giunti dopo moltissime difficoltà. La navigazione verso il porto, che la coscienza nazionale nel suo intimo sospirava ardentemente, è stata continuamente osteggiata da scogli e da foschie.
Dichiaro qui, in prima persona, assumendomi tutte le responsabilità morali e materiali della mia dichiarazione, che io vi ho messo tutta la mia buona volontà e che quando ho visto accettato l’essenziale, ho buttato in mare taluni dei dettagli che appartenevano all’accessorio. Aggiungo anche che difenderò con tutte le mie forze questo trattato di pace, il quale, a mio avviso, assurge all’importanza d’un avvenimento storico, anche per la sua singolarità senza precedenti; e che metterò in pratica un vecchio, saggio proverbio, che dice: «Chi non usa le verghe odia suo figlio».
Ora, se il fascismo è mio figlio — come è stato fin qui universalmente riconosciuto in migliaia di manifestazioni, che devo, fino a prova contraria, ritenere sincere — io, con le verghe della mia fede, del mio coraggio, della mia passione, o lo correggerò o gli renderò impossibile la vita.
È necessario, prima di passare ad altro ordine di considerazioni, rilevare che in questi ultimi tempi la coscienza nazionale aveva sempre più chiaramente manifestato il suo desiderio di pace. Le dimostrazioni dei mutilati a Napoli ed a Roma, col comizio Delcroix all’Augusteo, i voti dei reduci e delle madri dei caduti sono fatti «morali» che un movimento come il nostro non poteva ignorare, se è vero, come è vero, che intendiamo ricollegarci a Vittorio Veneto ed al significato di questo nome nella storia italiana.
Il trattato di pace era stato preceduto, proprio nella giornata di domenica, da due pacificazioni locali, avvenute in due centri operai popolosi ed importanti come Terni e Sestri Ponente. Nessuno di noi, ed io meno di tutti gli altri, voleva assumersi, data la situazione, la responsabilità di una rottura definitiva delle trattative, eccettuato il caso di clausole assolutamente inaccettabili. Ma chiunque esamina, con mente snebbiata dagli egoismi provincialisti intessuti di frasi fatte e sciupate come quelle che si leggono contro Roma, che sarebbe una specie di «vituperio delle genti» e contro il Parlamento e contro i deputati fascisti (oh, finalmente, una testa di turco!); chiunque sappia astrarsi un momento dalla contingenza immediata, non potrà a meno di riconoscere che questo trattato di pace è la consacrazione solenne, inoppugnabile, storica della nostra vittoria.
Sì, anche i protocolli sono necessari a fissare i caratteri di situazioni nuove, a stabilire il quantum di mutato nel corso degli avvenimenti.
È superfluo procedere ad un’illustrazione analitica delle clausole. Gli intelligenti comprendono a volo l’ampiezza di quanto abbiamo ottenuto e le conseguenze politiche di questo trattato di pacificazione non tarderanno a farsi sentire.
Nell’attesa di ciò, e non sarà lunga, qui bisogna affermare che questo trattato di pacificazione serve egregiamente e nobilmente la causa dell’umanità, la causa della nazione, la causa del fascismo. La causa dell’umanità in primo luogo, e quando parliamo di «umanità» nessuno deve credere che intendiamo ricascare nel vacuo internazionalismo umanitario dei socialisti, dei democratici o dei tolstoiani.
Tutto ciò esula dalle nostre concezioni realistiche. Ma se l’umanità vaga, che comprende tutti e nessuno, ci lascia indifferenti, c’è una umanità italiana della quale siamo ansiosi e pensosi. È l’umanità delle nostre magnifiche schiere, che di tanto generosissimo sangue hanno invermigliato le contrade d’Italia. Ora se c’è qualcuno che porta allegramente il fardello dei morti, questo qualcuno non può essere che un irresponsabile o un incosciente; ma un «capo» ha il dovere supremo di risparmiare anche una sola goccia di sangue quando non sia palese che il versarla è strettamente necessario ai fini della causa.
La causa della nazione è salvaguardata da questo trattato, perché la nazione attraversa una crisi gravissima, che poteva e potrebbe ancora diventare mortale.
Ma dunque: la nazione, anche per taluni fascisti, sarebbe quella cosa di cui tutti si riempiono la bocca, salvo poi a strainfischiarsene quando c’è da rinunziare agli interessi