All'epoca del Dominio de' Visconti e de' primi Sforza, teneva dimora in questa Rôcca un Commissario Ducale con forte mano d'uomini per mantenere colà e ne' circostanti paesi i signorili diritti, esigendo i tributi e le regalie: nel tempo però a cui si riferisce il nostro Racconto, cioè nel 1531, trovavasi dessa già da alcuni anni priva d'abitatori. Ne avevano da pria i Francesi sbanditi gli Sforzeschi, poscia ne erano stati essi stessi scacciati dagli Svizzeri, quando questi (nel 1512), condotti da Matteo Scheiner, il guerriero cardinale di Sion entrarono nel Ducato di Milano, per sostenere contro i Francesi i diritti di Massimiliano Sforza, primogenito del duca Lodovico detto il Moro, già morto prigioniero in Francia. Tocca non per tanto la terribile sconfitta nella famosa giornata di Marignano, ripresa Milano dai Francesi venutivi col loro re Francesco, sgombrarono gli Svizzeri il territorio ritraendosi nei baliaggi di Lugano, Locarno e Bellinzona, che erano già possedimenti del Ducato, e da cui non fu più possibile lo scacciarneli.
Da quell'anno in poi poche squadriglie di Spagnuoli, d'Alemanni ed anche di Francesi avevano, passando, fatta momentanea dimora in quella Rôcca; nè ciò avveniva più affatto da che teneva dominio sul lago l'ardimentoso Gian Giacomo Medici castellano di Musso, le di cui bande armate approdavano di frequente a Nesso, essendo quegli abitanti loro confederati, e riuscendo per ciò troppo difficile e pericoloso ad altri militi il fermar quivi soggiorno.
Siccome il governare in quella età non dipendeva che dalla forza delle armi, non essendo dato al duca Francesco secondo Sforza, tornato signore di Milano, il mantenere quivi un presidio, come avevano praticato i suoi maggiori, i Terrazzani di Nesso e di varii altri contadi del lago s'erano ridotti a un'assoluta indipendenza, di cui si giovavano in que' giorni di guerra onde commettere impunemente ogni sorta di depredazioni, e far scorrerie e bottino a danno de' confinanti e delle parti che battagliavano.
Tale sfrenata ribalderia degli abitanti di quella spiaggia, congiunta al pericolo di cadere nelle mani de' soldati del Castellano o de' suoi avversarii Svizzeri e Ducali, i quali trattavano con tutta la prepotenza militare chiunque s'avessero avuto in sospetto di spione, rendeva all'estremo periglioso e mal sicuro lo scorrere il lago e le rive al di là poche miglia di Como. Il maggiore spavento però che assalisse il cuore del pacifico navigante che arrischiava avanzarsi in quelle acque, era la fama d'un uomo che s'era fatto un nome formidabile assalendo armato le barche, depredando e spogliando i viaggianti, facendo in somma pel lago il terribile mestiero del pirata. Come avviene d'ordinario, e più di frequente accadeva in quell'età d'ignoranza, in cui le menti si prestavano ad ogni falso terrore, s'erano attribuiti a costui fatti, scelleraggini e poteri affatto straordinarii e quasi soprannaturali, per cui il nome di Falco (così egli s'appellava) era il terrore de' remiganti che s'affidavano al tragitto senza la scorta d'una nave armata, benchè talora gli armati stessi non aveano potuto opporgli resistenza.
Era Falco l'uno degli indipendenti uomini di Nesso, intrepido, fiero e vigoroso, che la brama di vendetta d'un sanguinoso oltraggio aveva spinto ad armeggiare in molte battaglie contro gl'Imperiali. Ricacciate d'Italia le squadre di Francia, tra cui egli aveva combattuto, era tornato alla patria Terra, dove insofferente di riposo, spinto da un'indole audace, da guerresche abitudini e dall'astio che gli durava vivissimo per gli Spagnuoli e gli Svizzeri, che uniti ai Ducali mantenevano la guerra sul lago contro il Castellano di Musso, aveva trascelti alcuni robusti compagni, co' quali, armato all'usanza de' tempi, scorreva il lago corseggiando. Conoscitore espertissimo di tutti gli scogli e i seni del lido, agilissimo rematore, sfidatore ardito dei venti e delle burrasche, sapea appiattarsi per tutto e piombare improvviso sulla preda. Se coglieva soldati nemici alla spicciolata, gli assaliva sostenendo contro di loro regolari combattimenti, e fuggendo poscia se il loro numero aumentava, si conduceva a sicuro salvamento ne' porti occupati dagli uomini di Musso che avevano barche armate pronte ad azzuffarsi ad ogni scontro.
Falco venia detto Della Rupe, poichè il suo casolare trovavasi sur una rupe a poca distanza del borgo di Nesso, e l'avea dovuta costruire colà in sito quasi inaccessibile per garantirsi da tradimento e da improvviso nemico assalto. A mezzodì di quel villaggio vedesi un fendimento nel monte che s'interna un trar di balestra, in fondo al quale piomba da molta altezza il torrente, la cui spumeggiante caduta scorgesi da lungi per entro quegli oscuri massi come una candida striscia, e vien nomato l'orrido di Nesso. Al vertice di questo fendimento, sulla sommità di eretti macigni inumiditi sempre dallo spruzzo delle cascanti acque, stava su un piano del giro di pochi passi l'abituro di Falco, a cui pervenivasi per due viottoli formati da informi gradini tagliati nel masso, l'uno scendente dal monte, l'altro che saliva dal lago, ambidue però non praticabili che colla guida di que' montanari. Era tal abituro costruito di sassi che sostenevano rozze travi; aveva le mura mediocremente spaziose e salde, una tettoia di lastre di pietre, la porta formata da massiccia tavola ad un sol battente, e due finestre difese da staggi di legno disposti a modo di ferriata: l'esterno scorgevasi presso che tutto verdiccio per l'edera che vi s'arrampicava; un antico castagno che gli sorgeva da lato, stendendo i numerosi e fronzuti suoi rami, difendeva dalla pioggia e dai raggi solari la soglia di quel casolare presso cui stavano quadrate pietre destinate a sedili.
Due persone abitavano quivi di continuo, e queste si erano la moglie ed una figlia di Falco; imperocchè egli ne stava il più de' giorni lontano, e solo dopo lunghe corse, dopo dati e sostenuti feroci assalti, molte fiate nel cuor della notte remigava alla sua rupe, e saliva al suo abituro talora carico di preda, e talora grondante di sangue e anelante per la fatica e la foga degli sfuggiti perseguimenti. Colà deposte le armi pesanti e i pugnali, respirava in riposo; e mentre sua figlia Rina gli tergeva la fronte, e districavagli gli arruffati capelli, Orsola sua moglie disponeva un desco, non sempre frugale, a cui d'intorno assiso narrava le sue venture, sinchè vinto dal sonno posavasi tra rozze coltri, dalle quali balzava all'albeggiare, ch'era pur sempre l'ora della sua partenza.
Orsola e Rina, accostumate a quel modo di vita del loro padre e marito, vivevano tranquille, confidenti nella bravura e scaltrezza di lui, non che in una costante prosperità di eventi che a tutti i perigli l'avevano sino allora sottratto. Era estraneo in tutto ai loro animi il rimorso e l'agitazione che avrebbe dovuto infondervi il pensiero d'essere congiunte sì strettamente di sangue ad un uomo che non s'adoperava che nell'uccidere e nel depredare: nè era a dirsi per ciò che gli animi loro fossero corrotti, o privi d'ogni senso di religiosa pietà, perchè anzi possedevano desse, ed era comune in que' tempi, una morale severità di pensieri, un sommo rigore di costumi, che però per l'indole fiera di quell'età non avevano tanta forza da far sentire iniqua e scellerata la violenza delle armi.
Per tutto in allora, ed in ispecial modo in que' paesi lungo teatro di guerre, i fiacchi, i miti d'animo erano oppressi e spogliati; per ciò nasceva in ognuno tendenza a farsi forte, audace, assalitore; quindi vigeva un'operosità di azioni e reazioni che giustificava ogni eccesso nell'uso della forza, e rendendo perpetue le zuffe e le atrocità, facevale sì famigliari, che più non recavano agli spiriti quel sentimento d'orrore che producono oggigiorno per la loro infrequenza e pel raddolcimento universale de' sociali rapporti. Storie d'uccisioni, d'incendii, fatti atroci accaduti per que' monti, o sul lago, erano le sole che dall'infanzia avevano sempre risuonato all'orecchio d'Orsola e della giovinetta figlia di lei: i loro conoscenti erano stati ognora uomini truci e facinorosi che non ragionavano d'altro che di vendette e d'offese, per ciò nella mente di esse andava congiunta alla naturale sensibilità, al buono e leale carattere proprio degli abitatori delle montagne una fiera e maschia tinta cui frammischiavansi i tetri colori di superstiziose credenze.
Gli echi delle rupi, i verdi pascoli, le limpide acque mantenevano nell'anima della giovinetta Rina la pastorale serenità e la calma soave dei monti, ma talvolta ben anco duri pensieri, secreti ritorni sulle tante spaventose immagini di che le avevano ripiena la fantasia vi stendevano una nera nube, e tal fiata i suoi lineamenti vivacemente animati prendevano un minaccioso aspetto, ed i suoi occhi scintillanti come nere gemme s'affissavano fieramente, e tal altra, assalita da vago terrore, stringevasi al seno di sua madre prorompendo in calde lagrime. Rina toccava