— Tanto noi siamo alleati! — sorride in tre tempi l'ufficiale, mentre i lobi delle sue orecchie sussultano tre volte.
Già: siamo alleati; è bene ravvivare alquanto alcuni ricordi sbiaditi. Tanto alleati, che nel discendere la scaletta del boccaporto che conduce nel Quadrato Ufficiali, tre o quattro manate confidenziali sulle spalle aggiungono al mio passo un impulso inaspettato.
Ecco: siamo in Germania. La Germania di sette o otto Von allineati, impettiti, muti, avanti ad una tavola sovraccarica di bicchieri e di vivande già pronte; la Germania dei cristalli policromi, dei lampadari dai fiori metallici contorti, delle piroincisioni, delle fotografie malamente colorate: la Germania della complicazione, della pesantezza, del cattivo gusto in ogni cosa.
Io stono qua: lo sento: lo vedo; il mio spirito italiano osserva, analizza, critica troppo, e se un sorriso tenta velare un po' questo mio sentimento, m'avveggo bene che esso sprizza da ogni gesto, da ogni inflessione di voce, irrefrenabile come lo sviluppo di un germoglio, sfuggente alla volontà come il pulsare del sangue: mio, mio nell'essenza, nella genitura, nell'eredità, alimentato da aria italica e dai prodotti della mia terra fatta di polvere di veri dominatori.
E vedo la marionetta di me stesso rimanere in piedi ad ascoltare una specie di saluto al Kaiser che il Comandante lancia con un tono fatto di predica, di cattedra e di comando; poi la vedo levare un bicchiere all'altezza precisa alla quale tutti i «Von» lo elevano, ingurgitare di colpo del vino del Reno, e picchiar forte il calice vuoto sul tavolo, con un rumore simultaneo e secco che ripete l'urto sulla terra del calcio dei fucili d'un plotone, al comando «pied'arm!».
La vedo osservare il morso avido, accompagnato dall'apertura animalesca degli occhi, dalla scossa del capo, dal succhio delle labbra, nel silenzio tutto teutonico della nutrizione. — Ahi! Quanti interminabili piatti sfilano, quanti sermoni ascoltati in piedi, irrorati di nuovo, e chiusi dal colpo unico dei bicchieri sul tavolo! Su, giù: su, giù: a tempo, con scuola, con metodo; e gli occhi brillano, e l'alleanza si stringe e le cordialità manesche sulle spalle si moltiplicano, mentre il discorso scivola, scivola verso una buca finale che la mia marionetta sa già quale sarà. Essa sa già che questo suo vicino di dritta, il cui sorriso s'accentua e diviene quasi fisso, domanderà tra poco: — ... E come passate voi la sera qui?... — preludio di altre domande che l'alleanza sa formulare in tutti i paesi del mondo traendole dal catalogo del libertinaggio marittimo, nelle sue ultime linee.
Ci siamo. No, per Bacco! Il «se lei viene da noi a Wilhelmshafen o a Elbing... le faremo vedere...» non è reciprocità che lontanamente lusinghi la mia marionetta che quasi di colpo sparisce per ridarmi il mio posto. No: e un mio sorriso perfettamente idiota ferma — Ach! — e poi storna le questioni, mentre l'io s'ecclissa davanti al suo sostituto che ritorna subito.
Finito? No. V'è ancora da brindare levandoci di nuovo, inchinandoci tutti verso il centro della tavola, in maniera che le nostre teste si tocchino, come si toccano i bicchieri. Formiamo così una capanna conica di corpi ben stretti, assolutamente seri, ben fissi nell'atteggiamento di scambiarci una parola d'ordine che è invece una chiacchierata declamatoria nella quale entra un po' di tutto. E il rito è celebrato. Vorrei conoscere quale sia il nesso che spinge l'uomo a ingurgitare del liquido sulle cose che egli dice, quando le ritiene solenni e impegnative per la sua fede. Ora, per esempio, con tre o quattro sorsi di extra-dry ci siamo assicurati una quantità di cose che nessuno infrangerà. È inutile: la storia beve; ha sempre bevuto troppo, tanto che spesso oscilla e non la si comprende più...
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Scendo nel motoscafo col netto senso di rientrare in Italia. — È mia quest'acqua che rispecchia le snelle linee dei marmorei palazzi creati dalla mia razza; mia quest'ampiezza rosata di spazio, dove si librò sovrano il pensiero dei miei padri per dar fremito al mondo. Canta gondoliere! La tua canzone la so! Va, caro scialletto, va per la calle dondolando sugli agili fianchi: fa risuonare dei tuoi zoccoletti il lastricato liscio da dove i colombi tranquilli non fuggono. Figure, linee, suoni, tutto è per me e per il mio sangue. E mentre il motoscafo rasenta le rive da dove le galeazze lionate salpavano cariche di forza e di saggezza a portare sui mari il fulgore del nostro spirito, le campane di San Marco suonano, sciama compatto dalla Piazzetta un turbine di colombi che il colonnato del Palazzo dei Dogi respinge e dissolve, e mi pare che tutta l'aria vibri per un grande inno italiano terminato da un immenso, immateriale bacio a questo paradiso italiano.
VII.
Il Sire è giunto. L'«Hohenzollern» — il yacht Imperiale — è passato stamane a pochi metri dalla mia nave ormeggiata ai Giardini, accolto da colpi di cannone e dal ronzìo degli apparecchi cinematografici, così come giustamente gli si conviene. I nostri equipaggi, raccolti in striscie dense ed immobili lungo i fianchi delle navi, hanno gridato gli hurrah di rito, ai quali un uomo isolato sulla plancia, intabarrato, stringente un cannocchiale sotto un'ascella, rispondeva appena portando di scatto due dita alla visiera del berretto: lui: il Kaiser.
Poi i cannoni hanno taciuto: una ressa di gondole ha formato come le siepi di una strada immaginaria tracciata nel bacino di S. Marco, ed il yacht imperiale vi si è inoltrato a lento moto fino alle boe dove è stato ormeggiato.
Un gridìo immenso sorgeva dalle siepi ed era condensato a tratti in un urlo solo che si ripeteva tre volte. Ho creduto di sognare: mi son chiesto con stupore quale Venezia fosse quella che avevo sott'occhio; quando e come fosse stata invasa così. Tutto tedesco quel grido!: — Hoch! — Hoch! — Hoch!... — Grido di migliaia: da dove — o angelo dorato del Campanile di S. Marco — da dove venuti? E non so perchè ho provato un brivido a cui non ho potuto dar nessun nome...
* * *
— Questo qui — mi dice un tenente di vascello tedesco, col quale mi son fermato avanti ad un enorme ritratto che domina tutta una paratia del Quadrato Ufficiali a bordo dell'«Hohenzollern» — questo qui ne farà vedere delle belle!... E abbassa la voce, stemperandola nel sorriso della confidenza.
«Questo qui» è il Kronprinz. E io guardo con sorpresa la mia guida domandandole perchè.
— Perchè? — ripete questa; ma naturalmente non va più avanti, affidando la risposta ad un gesto prettamente tedesco che significa attesa e che consiste in una rapida oscillazione della mano tenuta dritta, palma in fuori, ed all'altezza del petto.
Io penso che lo champagne di rito che ha bevuto poc'anzi con me, e forse con molti altri ufficiali prima di me, gli abbia dato leggermente al capo. Devo aspettar che? E, in ogni caso, il mio Paese non ha nulla a vedere con le questioni interne della Germania e col carattere del suo futuro governante.
No: questo gioviale fanciullone, quasi albino a forza di esser biondo, deve realmente aver troppo brindato, e le sue confidenze hanno soltanto per fondo le bollicine esilaranti delle coppe tracannate...
Infatti nel guidarmi attraverso gli imperiali appartamenti mi suggerisce le più strane osservazioni sul dubbio gusto degli addobbi, sorride con indulgenza su alcune imperiali volontà, sorvolando però, non approfondendo troppo; pronto al viso tedesco di reverenza non appena il suo spesso labbro si agita per pronunziare la parola cesarea, la parola di dominio, designante la massima potenza umana.
Ed ecco che la psiche di questo straniero mi sfugge...
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Parsifal: l'apoteosi del Germanesimo. Wagner agli intellettuali, attraverso i teatri di Europa infiacchiti tutti nello spirito nazionale; e Carlo Marx alle masse, rese irrequiete