Guarda! Dei colleghi! Non precisamente: dei colleghi alleati: ufficiali di marina Austriaci, accompagnati dall'addetto navale Austro-Ungarico a Roma, che io conosco. Giungono ora e il direttore li ossequia con un forte angolo d'inchino. Sono con loro alcune signore e alcuni bambini vestiti da marinaio, sul cui berretto, per antica professionale mia abitudine di leggervi il nome ricamato in oro sul nastro, il mio occhio fugacemente si posa... Oh! Maledetti! «Lissa» e «Novara»... Selvaggi o idioti... Potessi figgere in tutta la vostra orda con punte roventi nel cervello queste lettere della nostra sciagura, che venite a mostrarci in casa nostra!...
— Oh! Come sta? È destinato a Venezia? — È l'addetto che mi parla.
Su la maschera, italiano, il cui cuore duole, come se uno spillo ne martoriasse la punta. E colleghi alleati e bambini mi si trattengono intorno, mentre le signore aspettano un poco più all'indietro.
— Da qualche giorno... Lei?
— Accompagno questi ufficiali, venuti da Pola per le regate internazionali, sa? Siamo appena arrivati col «Metkovitch» da Trieste ora... Non ci siamo ancora cambiati...
— Lo immagino — gli rispondo — dal nastro di questi bambini...
Un sussulto che si propaga a ondate all'intorno. Chi asserisce ancora che l'uomo appartiene alla stessa famiglia, mente. V'è sulle labbra di tutti costoro e forse anche sulle mie, lo stesso sorriso che ci venne insegnato nell'infanzia, frale scudo alla verità. Ma le pupille parlano, fissate da un attimo di odio ereditario, ribollito all'istante dalle più intime fibre del nostro essere. Latini e barbari ci ritroviamo di fronte, come sempre, animati da un'ostilità assorbita nell'alveo materno, più forte della nostra natura, incancellabile, eterno.
Non batto ciglio, mantenendo tranquillo lo sguardo sui volti intorno...
— Max! Rudolf! Frida! — chiamano alcune voci femminili. — E i bambini si ritraggono, condotti via da una governante dal bianco vestito di leggiera mussolina, che contro lo sfondo luminoso dell'arcata, rivela con profusione tutta la sua rosea nudità di bionda.
No, che non è morta la guerra: il contratto sorriso di costoro è divenuto quasi un ghigno che riproduce quello dei loro padri nel martirologio italiano, come ci venne descritto da bimbi. E non so perchè, provo per un istante la sensazione netta che ci ritroveremo un giorno di fronte così, su questo scintillante Adriatico, sconvolto da un orrendo «Scïò»...
Ma comincia l'untuosa cortesia austriaca, fatta di sorrisi slavi e di dialetto veneto, a cui dà spirito l'ultima operetta viennese, e fibra, un'educazione mezzo ecclesiastica e mezzo militare. Bisogna rassegnarsi. Fuori tutte le risorse della cordialità internazionale, tutti i ganci orali dell'alleanza... — Italiano, e che ci vuole a sorridere a un Austriaco?
Una contrazione: niente. E poi è un periodo di feste che mi s'annuncia... Verranno qui due navi tedesche: la «Goëben» e la «Breslau» insieme allo «Sleipner» — l'ex-cacciatorpediniere trasformato in veloce yacht di S. M. l'Imperatore di Germania. E subito dopo giungerà l'« Hohenzollern» con a bordo Sua Maestà... Feste, feste della nostra alleanza, la vera, l'unica garanzia della pace, che nessuno oserà rompere mai...
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— Non so più come fare — mi dice il direttore dell'Hôtel che ritorna a me non appena son rimasto solo. — Non ho più camere disponibili e continuano a giungere telegrammi di richieste, potrei dire, da ogni parte d'Europa. Son tutti tedeschi che piovono qui in questi giorni... Magra clientela e non troppo desiderabile... Esigente, pitocca e grossolana.
— Risponda no.
— Sarebbe imprudente. Sono vendicativi e organizzati anche nella vendetta. Lei non può averne idea... Si guardi intorno: decorazioni, tappezzerie, lampadari, cristalli, mobili, tutto è «made in Germany», tutto ci vien di là... Lei mi capisce?... Non c'è che un sistema... Mandar via i pali...
— I...?
— I pali.
E siccome lo guardo con una certa sorpresa, — Noi chiamiamo così — prosegue — tutti coloro che ospitiamo a ridottissimi prezzi e anche gratis e che servono di richiamo. C'è un po' di tutto: autentica nobiltà che ha molte relazioni e le attira qui vantando l'ambiente, la stagione, ecc.: un magnifico profitto per noi; pseudo-artisti che «lavorano» nella cerchia intellettuale, intrattengono gli ospiti veri e rappresentano una speciale attrattiva, molto apprezzata dal forestiero «rasta». E poi — palo supremo — alcune abitatrici così dette di passo — ben mascherate di rispettabilità nei saloni da pranzo, da ballo, di scrittura e nei salotti del pian terreno, ma che dopo la breve salita dell'ascensore, cambiano un po' carattere...
Mandar via costoro non è un gran male. Li raccomanderemo ad un altro Hôtel, tanto devono ben passare la stagione in qualche modo. Li richiameremo quando avremo di nuovo stanze vuote. Lo vede che lei ha bisogno di essere istruito?
Proprio vero: ho bisogno di essere istruito: e quest'uomo che ha per orizzonte una lista di nomi rinnovata ogni giorno, possiede inestimabili tesori di scienza. Peccato che una tedeschina verso cui si precipita per chiederle con premura se ha pranzato bene, me lo porti via con un «Ia wohl» che è tutto un poema di riconoscenza gastrica, seguito da altri desideri gastrici per l'indomani.
VI.
— Ich habe die Here... — Costui che mi saluta alla scala della sua nave, con un inchino composto di tre oscillazioni sulle reni, una breve sull'«ich», un'altra breve sull'«habe» ed una lunga sull'«Here», tenendo ferma la mano destra lungo la tempia, mi ricorda quei musi di vitelli bolliti, che dalle vetrine di alcune trattorie popolari romanesche fissano l'uomo con un glauco disdegno discendente, coronato d'alloro.
È roseo, paffuto, implume e orecchiuto; alto, tarchiato, mal vestito e legnoso; e ride come se un capitano di vascello, annidato dentro di lui, gliene desse di quando in quando l'ordine.
Un suo collega accorre: un altro, un altro ancora, percorrendo il ponte di coperta con un passo che richiama alla mente la mazzuola del calafato. E mi circonda la cortesia teutonica, espressa in cinque o sei tempi, così come prescrive qualche suo codice segreto.
Andiamo: una colazione di «comandata» mi aspetta e m'è necessario un preventivo contatto con costoro, per non sentir poi una dissonanza troppo acuta: giacchè è proprio a tavola che si accentua il contrasto delle razze e di tante altre cose.
Ma nell'avviarci verso poppa, rasentiamo un casotto dall'ampie vetriate con tendine di seta bianca accuratamente chiuse come sui tabernacoli. — L'alloggio del Kaiser... — mi si dice. E mi si dice con una voce fatta quasi afona dalla reverenza; e mentre mi si invita ad entrare, espressioni ed atteggiamenti raggiungono quel massimo di umiltà grave che soltanto il sacerdote raggiunge, quando nel sacrifizio divino si proclama indegno dell'ostia consacrata. Io non so se lo sguardo più che tranquillo dei miei occhi latini che racchiudono un'eredità secolare di cose grandiose e di viste trionfali, e che ora si soffermano appena su un tavolo enorme, sormontato come da un casellario ripieno di biglietti di ordini, intestati con la ruvida corona imperiale e trascorrono poi su una comunissima poltrona da circolo, e si trattengono anche meno su alcune fotografie di paesaggi nordici, incorniciate da carta dorata, sia stato interpretato come evidente manifestazione di una irriverenza ingenita nella mia razza.
Forse...: e devo esser illuminato...
— Da questo telefono — mi ammonisce un ufficiale dalle orecchie larghe e mobili da antropoide, indicando un apparecchio telefonico posato sul tavolo e certamente già connesso alla rete della città, — dipendono le sorti dell'Europa...
Nientemeno! E perchè no del mondo? La superbia non ha mai limite, come non ne ha la scempiaggine di chi nel 1914 può credere a simili facezie e ripeterle a un ospite con un tatto così squisito.