–No, v'ingannate;—rispose prontamente Spinello.—La moglie dell'artista è qui.—
Ed accennò il cuore, dove sta di casa la passione.
–Avrete ragione;—disse il sagrestano, inchinandosi.—Purchè non si soffra, lì dentro. Nel qual caso, addio arte!
Spinello pensò che il povero prete non era fatto per intendere certe cose, e, datagli una di quelle occhiate patetiche, le quali sembrano dire tante cose, forse perchè non ne dicono alcuna, infilò la porta del Duomo. Affrettava il passo, perchè quel giorno era invitato a desinare dal maestro, e l'ora, come si è detto, era tarda.
Fra pochi istanti avrebbe veduta madonna Fiordalisa. Ma come avrebbe osato posar gli occhi su lei, dopo quel doloroso discorso di mastro Jacopo? Fortunatamente, dalla tranquilla accoglienza che Fiordalisa fece al futuro Apelle, gli fu agevole intendere che mastro Jacopo non aveva creduto opportuno di dir nulla alla sua bella figliuola. E Spinello gliene fu grato, perchè, libero da ogni soggezione, avrebbe potuto guardare in volto Fiordalisa, contemplarla a sua posta, e pensare tra sè con gioia infantile:—tu non sai, bambina, tu non sai quel che so io; sarai mia, bella creatura, sarai mia; il pegno della vittoria è là, in quel rotolo di carta, che io ho riposto su quel canterano di noce.—
Mastro Jacopo, prima di mettersi e tavola, tirò in disparte il prediletto discepolo e gli disse:
–Orbene, t'è venuta l'idea?
–Sì, maestro, è venuta.
–E ne sei contento?—
Spinello fece un cenno del capo, che voleva dire: così così; ma le sue labbra si atteggiavano ad un malizioso sorriso.
–Ah, briccone!—esclamò il vecchio pittore. Tu sei contento e non —vuoi confessarlo. Fammi vedere il disegno.
–No, maestro, non ora. Se permettete, sarà per domani. Non sono ancora ben sicuro del mio concetto. Nell'ebbrezza del comporre, mi è parso bello; ma ora, pensando alla grandezza del premio,—e così dicendo Spinello volgeva gli occhi a Fiordalisa, il cui elegante profilo si disegnava sul fondo luminoso della mensa apparecchiata,—ho una gran paura di aver fatto un pasticcio. Aspettate domani. Intanto, ci dormirò su e poi vedrò di ritoccarlo.
–Sia come tu vuoi;—disse mastro Jacopo.—Andiamo a tavola. Io non mi nutro con gli occhi, come te, ed ho una fame assaettata.—
La mattina seguente Spinello ritornò sull'opera sua. Gli pareva manchevole, e certamente era, come tutte le cose tirate giù in fretta. Ma delle cose fatte in fretta aveva anche i pregi, cioè a dire, insieme con qualche ridondanza facilmente correggibile, unità di concetto e franchezza di esecuzione. Rimutò qualche parte, rifece il disegno, accrebbe con alcuni tocchi l'espressione dei volti, e finalmente come gli parve di aver migliorato il suo lavoro, si arrischiò a metterlo sotto gli occhi del maestro.
Tremava, il povero Spinello; tremava, vedendo il vecchio pittore atteggiato a giudice davanti al suo disegno, e raccolto in un silenzio che non gli prometteva niente di buono.
Mastro Jacopo guardava sempre così. La sua attenzione era concentrata nel soggetto, non si perdeva mai in esclamazioni, o inarcamenti di ciglia. Quando aveva considerato per ogni verso ciò che doveva giudicare, meditato, vagliato, pesato tutto sulle bilance dell'orafo, allora soltanto si lasciava sfuggire un bene, o un male, secondo che gli pareva, ma niente di più.
Quella volta, per altro, si mostrò più corrivo.
–Bene!—diss'egli, dopo una lunga disamina. Sono contento di te. La —composizione è saviamente immaginata. L'atteggiamento del Santo è —sobrio e dice molto. Se ti riesce sul muro quell'aria di testa, come —t'è riescita sulla carta, hai vinto per mia fede un gran punto.—
Spinello, fuori di sè dalla gioia, buttò le braccia al collo del maestro.
–Via, via,—ripigliò il vecchio pittore, schermendosi male da quella dimostrazione d'affetto.—Non son mica Fiordalisa!
–Padre mio, perdonate;—gridò Spinello.—Sono tanto felice! La vostra lode è per me il più grande, il più ambito dei premi.
–Sì, dopo la mano di Fiordalisa;—borbottò mastro Jacopo.—Ma già si capisce, ed io non mi lagno. Del resto, la lode del babbo e la mano della figlia non son tutta roba di casa mia?
Spinello chiese licenza al maestro di poter cominciare quel medesimo giorno a far la macchia, per ottenere una giusta intonazione di tinte. La mattina seguente mise mano al cartone. Aveva misurato lo spazio su cui doveva essere dipinta la storia del Santo e fatto il conto dei fogli di carta che gli bisognavano per quel tratto di muro. Non gli restava che di congiungerli ad uno ad uno per gli orli, con la colla di farina cotta al fuoco. Ciò fatto, e come il cartone fu rasciugato sulle giunture, lo stese al muro, incollandolo sui lembi; indi, tirate sul suo primo disegno tante righe orizzontali e perpendicolari che lo riducessero ad una fitta rete, segnò lo stesso numero di linee sul cartone, a distanze proporzionatamente eguali, affinchè gli fosse facile di condurre il suo primo disegno alla misura dell'affresco che aveva immaginato di fare.
Spinello lavorava per quattro, e al paragone suo anche Luca Giordano, soprannominato Luca Fa presto, avrebbe potuto andarsi a riporre. Finito il suo graticolato, mise un pezzo di carbone in capo ad una canna, e là, ritto davanti al muro, con un occhio al disegno primitivo e l'altro al cartone, incominciò a riportare su questo i contorni dell'altro. Due giorni dopo, il cartone del Miracolo di san Donato era fatto, con grande soddisfazione di mastro Jacopo, il quale per tutto quel tempo non aveva voluto nessuno dei suoi giovani in chiesa. Già, a che cosa gli sarebbero serviti quei lasagnoni? A mesticargli i colori? Mastro Jacopo, per quei due giorni, mesticò i suoi colori da sè, come avrebbe fatto ogni artista novellino. Tanto è vero che ognuno, purchè voglia, più passarsi dell'opera d'un altro, sia egli servitore od aiuto!
Per contro, il vecchio pittore aveva anche dato una mano al suo prediletto scolaro, facendogli costrurre il ponte nella cappella in cui doveva dipingere. E come il cartone fu condotto a termine chiamò i muratori perchè dessero un'arricciatura grossa sul muro, debitamente scrostato; indi fece incrostare di nuovo tanta superficie di muro, quanta Spinello credeva di poterne colorire in un giorno.
Spianato per benino l'intonaco, il giovine artista vi stese il cartone e calcò su quello il disegno della sua composizione, per avere i contorni precisamente tracciati. Indi prese a mettere il colore, come gli era dato dal bozzetto, che aveva preparato in anticipazione.
Il giorno in cui Spinello aveva incominciato a dipingere, mastro Jacopo, sceso dal suo ponte verso l'ora di vespro, andò sul ponte dello scolaro, a vedere come se la fosse cavata.
–Bene, perdiana!—gli disse, vedendo già dipinta tutta la figura del Santo, e con un'aria di festa che meglio non si sarebbe potuto desiderare.—Per questa volta son io che abbraccio te.—
Immaginate l'allegrezza di Spinello; io rinunzio a descriverla.
Mastro Jacopo ripigliò:
–Per far bene, è dunque mestieri d'essere innamorati? Ahimè, ragazzo mio, a questo patto io non farò più nulla di buono, poichè la stagione degli amori è passata.—
Quel medesimo giorno, escito di chiesa un'ora prima del solito, mastro Jacopo passò da Luca Spinelli, per fargli un certo discorso che ricolmò di contentezza il paterno cuore del vecchio fiorentino. Indi, arrivato a casa, prese la sua Fiordalisa in disparte e senza tanti preamboli le disse:
–Sai? Ho deliberato di maritarti.—
Fiordalisa si fece rossa, ma non tremò. Aveva indovinato, e accolse l'annunzio del padre con un eloquente silenzio. Eloquente per noi, che sappiamo tutto; non per Jacopo di Casentino, che non sapeva nulla dell'animo di sua figlia.
–Orbene,—disse egli, dopo un istante di pausa,—così ricevi la mia notizia?
–Padre mio.—balbettò Fiordalisa, chinando la fronte,—quello che voi farete… sarà ben fatto.
–Sì, questo va bene;—ripigliò mastro Jacopo, che aveva voglia di ridere;—ma se per avventura si trattasse di uno che non ti andasse