Il ritratto del diavolo. Barrili Anton Giulio. Читать онлайн. Newlib. NEWLIB.NET

Автор: Barrili Anton Giulio
Издательство: Public Domain
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Жанр произведения: Зарубежная классика
Год издания: 0
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si fece modestamente a rispondere:

      –Io, veramente, maestro, non intendevo di togliere i meriti al vostro nuovo scolaro. Non lo conosco ancora di persona, ma lo stimo già assai per questi tocchi di penna, che voi ci avete proposti ad esempio. Dicevo solamente che madonna Fiordalisa….—

      Jacopo di Casentino diede un balzo e guardò il migliore de' suoi discepoli con aria tra maravigliata e scontrosa.

      –Che c'entra madonna Fiordalisa?—diss'egli interrompendolo.

      –Eh, c'entra in questo modo,—rispose Parri della Quercia,—che nei quattro tocchi di cui parlavamo dianzi, quando voi siete capitato…. Eccoli qua, del resto; non ci vedete il ritratto di madonna Fiordalisa? Almeno almeno, si può dire che arieggiano la sua figura.

      –-Sia pure;—disse mastro Jacopo, col piglio di chi non vuol negare nè ammettere una cosa.—E che cosa dicevi tu dunque?

      –Dicevo che madonna può riconoscersi in questi contorni, ma che questo non può dirsi un vero ritratto. Un ritratto della vostra figliuola io l'ho per la cosa più difficile del mondo, se non per avventura impossibile. Madonna Fiordalisa ha un'aria così mutevole!

      –Aria mutevole! aria mutevole!—borbottò mastro Jacopo.—Non so che cosa intendiate di dire, con quest'aria mutevole. I vecchi pittori non le conoscevano, queste novità del vostro gergo.

      –Maestro,—entrò a dire il Chiacchiera, vedendo che Parri della Quercia era rimasto mutolo,—sono le parti mobili del viso, che fanno di questi scherzi. Il viso ha le sue parti mobili; è l'opinione di Tuccio di Credi.—

      Mastro Jacopo andava di meraviglia in meraviglia.

      –Ah sì! Anche Tuccio di Credi ha un'opinione?—chiese egli, con accento sarcastico.

      Tuccio di Credi fu toccato sul vivo da quelle parole, ma più dal tono canzonatorio con cui erano profferite.

      –Che male ci sarebbe, maestro?—disse egli.—E che ci vedreste di strano?

      –Niente, in verità; niente strano in voi altri. E non ci sarebbe neanche ombra di male, se almeno voleste prendervi il fastidio di lavorare. Siete lasagnoni, buoni a nulla…. Cioè, mi correggo; siete buoni a far chiacchiere; tanto che uno di voi ci ha buscato il soprannome. Ragionare di principii, far trattati, inventar dottrine, ecco il fatto vostro. Lavoro, vuol essere, lavoro, e poi sempre lavoro. Le ragioni dell'arte son qui, nel braccio e nella schiena; il resto non vale più che tanto. Fatemi la grazia di lasciare le ragioni dell'arte, i principii, i trattati, a coloro che sono invecchiati nell'operare. Anche voi, un giorno, quando sarete giunti a compieta, potrete dire ai giovani: così va fatto e così non va fatto. In nome di che? In nome della vostra esperienza. Senza di questa non ci son dottrine che tengano.

      –Maestro,—osò dire il Chiacchiera,—voi restringete il campo dell'arte.

      –Che campo m'andate voi sfringuellando? Il campo dell'arte! Ecco un'altra invenzione dei pittori parolai. Dovevate vederlo che cos'era il campo dell'arte, quando vivevano i grandi maestri. Non le si conoscevano mica, queste cianciafruscole ai bei tempi di Taddeo Gaddi e di Giotto!

      –Giotto fu un rinnovatore dell'arte;—ribattè il Chiacchiera.—E noi dobbiam mirar tutti a fare del nuovo.

      –Ah sì? E credete che sia possibile, far sempre del nuovo? Badate, lasagnoni, che le vostre novità non siano ritorni alle mosse. L'unica novità, che io possa raccomandarvi è questa: fate, fate, non vi stancate di fare. E per intanto smettete le ciance, che il fistolo vi colga!—

      Ciò detto, maestro Jacopo si allontanò dal crocchio dando una poderosa alzata di spalle. Al quale atto il Chiacchiera rispose per tutti, facendo le boccacce. Poco stante si affacciava un giovinotto sull'uscio della bottega.

      –È qui mastro Jacopo di Casentino?—chiese egli con aria peritosa.

      –È qui;—rispose il Chiacchiera.—Che cosa volete da lui?—

      Mastro Jacopo aveva udito la voce del nuovo visitatore, ed era subito escito sul limitare della sua camera.

      –Oh, bravo, ragazzo mio, fatti avanti!—gridò egli.—Ti aspettavo. Eccoti in casa tua. Questi sono i tuoi compagni di lavoro; Tuccio di Credi, Parri della Quercia, Cristofano Granacci, Lippo del Calzaiolo, il Chiacchiera… cioè, diciamo prima il nome che ha avuto a battesimo, Angiolino Lorenzetti, e poi diremo quello che gli hanno appioppato le persone intendenti.—

      Il giovane a cui erano presentati in quella forma gli scolari di mastro Jacopo, li salutò con un cenno grazioso del capo, indi soggiunse:

      –Saremo amici, io spero.

      –A voi, lasagnoni,—ripigliò maestro Jacopo,—salutate Spinello Spinelli, l'autore dei tocchi in penna che avete veduti poco fa. È un ragazzo che, se non si svia per cammino, farà parlare di sè.—

      Gli scolari di mastro Jacopo s'inchinarono davanti a Spinello. Parri della Quercia gli stese la mano, dicendogli:

      –Amico e fratello, se vi piace.—

      Ma gli altri non si fecero così avanti, non si buttarono via come Parri della Quercia.

      –Saremo amici, io spero!—ripeteva sommesso il Chiacchiera, rifacendo il verso del nuovo venuto.—Vedete che degnazione! O che si crederebbe, per caso, d'essere il duca Namo di Baviera?

      –O il Saladino;—soggiunse Lippo del Calzaiolo.

      –Sarà poi Calandrino, e nulla più;—conchiuse Cristofano Granacci.

      Tuccio di Credi non disse nulla; ma dentro di sè pensava:

      –Amico tuo! Sei sciocco, affè mia, se lo speri!—

      III

      Abbiano la mala pasqua i pessimisti, gli scettici, ed altri filosofi di tal fatta, i quali sostengono che l'uomo sia un animale invidioso per natura, e che le nostre buone qualità sieno solamente effetto di paziente educazione, come a dire di strofinamento e di verniciatura.

      Grazie al cielo, e con licenza dei filosofi sullodatì, ci sono ancora delle anime intimamente buone, la cui virtù è frutto di generazione spontanea, non già conseguenza d'innesto sapiente, o d'arte giudiziosamente educatrice. E ci sono altresì degli uomini che non soffrono il male dell'invidia, neanche (e questo è meritorio da parte loro) quando vedono che Tizio o Caio ha ingegno o attitudine da superarli di gran lunga, in questa o in quella disciplina.

      Vedete, ad esempio, il nostro bravo messer Jacopo di Casentino. Il vecchio scolaro di Taddeo Gaddi, il degno continuatore della tradizione di Giotto, indovinava facilmente che quel giovinottino da lui preso a bottega, quando avesse fatto un tantino di pratica nel maneggio dei pennelli, sarebbe diventato di schianto un artista insigne, un maestro, da lasciarsi addietro i migliori del suo tempo. E per lui, per quell'aquilotto che metteva appena i bordoni, mastro Jacopo aveva smosso il suo piglio burbero; per lui trovava le parole amorevoli, la placida assiduità degli insegnamenti, la ineffabile tenerezza dei conforti paterni.

      Due sentimenti diversi lo persuadevano a ciò. Il primo era quello dell'ambizione. Esser maestro ad un discepolo che non aveva punto mestieri di rimproveri e così poco di incitamenti a far meglio, poter raccomandare il suo nome ad un nuovo argomento di gloria, eccovi l'ambizione di mastro Jacopo; ambizione legittima, e, quel che più monta, di effetto sicuro, si sarebbe detto un giorno: Spinello Spinelli, il famoso pittore d'Arezzo, era scolaro di Jacopo da Casentino. Degno del maestro il discepolo! E se pure si fosse dovuto dire: migliore del maestro la gran pezza, sarebbe stato poi un gran male? Avere indovinato un ingegno potente, averlo tratto dall'oscurità, avergli per così dire adattate le ali agli omeri, non è forse una gloria, un titolo di merito al cospetto dei posteri, specie quando un simil titolo si può metter di costa ad altri parecchi?

      Ora, che mastro Jacopo di Casentino non s'ingannasse in questi suoi sogni ambiziosi, la storia dell'arte italiana lo ha dimostrato. La fama di Spinello Aretino ha confermata, se non per avventura accresciuta, la fama del suo vecchio maestro.

      L'altro sentimento era d'indole affatto domestica. Gli dò mia figlia;—diceva tra sè mastro Jacopo.—Bello lui, come essa è bella: ha ingegno, salirà presto in eccellenza d'arte; avrò in lui