Tra cielo e terra: Romanzo. Anton Giulio Barrili. Читать онлайн. Newlib. NEWLIB.NET

Автор: Anton Giulio Barrili
Издательство: Bookwire
Серия:
Жанр произведения: Языкознание
Год издания: 0
isbn: 4064066072179
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alla tua terra natale. Più presto che non ci fosse dato sperare, in verità! È stata un’ingiustizia, tu dici; meglio così. Partivi fidente, ritorni disingannato, ma anche educato dalla sventura, agguerrito alle pugne dell’esistenza. Farai il tuo dovere, qui, come altrove; servirai alla gran legge di Dio, che è progresso infinito, dovunque si vada, di dovunque si muova.

      Il paesello di San Giorgio incominciava ad apparire. Peccato che fosse già tardi! Le ombre della sera cadono troppo rapidamente, nelle gole delle Alpi. Ma nella scarsa luce del crepuscolo, i ceppi delle case biancheggiavano ancora abbastanza: poi, quando la vettura fu all’entrata del borgo, incominciavano ad accendersi i lampioni. Un po’ radi, secondo l’uso dei piccoli paesi e la poca «elasticità» dei bilanci comunali; ma supplivano qua e là i lanternini appesi a qualche tabernacolo di santo, negli angoli delle vie. A quella scarsa luce Maurizio vide i ciottoli enormi onde era lastricata la strada maggiore; sempre quelli, con le loro gibbosità, coi loro alti e bassi continui, sempre quelli, eternamente rugosi e rossastri nella corteccia inattaccabile della quarzite, che s’è arrotondata così, colorata così, nella mota millenaria del periodo glaciale. Poveri cavalli, costretti a lavorare di zampe ferrate in quel letto di torrente!

      Ma ecco, finalmente, un po’ di strada da cristiani; ecco il battuto della piazza maggiore; ecco la chiesa, la parrocchiale di San Giorgio; e più su, in capo ad una piazza, che scende larga in pendìo, la mèta del suo viaggio, il suo palazzo, il «Castèu». Meritava il nome con cui era stata battezzata, e sotto cui era comunemente riconosciuta, la vecchia casa dei Sospelli di Vaussana; castello del Trecento, o giù di lì, con la sua torre da un lato, con le sue logge alte al secondo piano, fors’anche coi merli e le caditoie; restaurato quindi a palazzo signorile, nel corso del Secento, gran colpevole un po’ da per tutto di simili trasformazioni architettoniche. E veramente allora erano state chiuse le grandi finestre a sesto acuto, per ricavarne di più piccole, a stipiti quadrati, nel mezzo; ma ancora da certe screpolature s’indovinava l’alzata dell’arco primitivo, e da qualche sfaldatura dell’intonaco ne trasparivano le elegantissime linee di cotto. Un nuovo restauro, dei principii del secolo presente, aveva aggiunte le persiane; ed erano queste, per l’appunto, che avevano persuaso il padre di Maurizio di non appagare un desiderio della moglie, a cui sarebbe piaciuto di veder ritornate alla luce e alla gloria antica le ogive del Trecento.

      —Cara mia,—le aveva detto il buon conte di Vaussana,—per contentare il tuo gusto medievale bisognerebbe rinunziare a questa benedetta invenzione delle persiane. Levate queste, ed anche ingrandite le finestre, immagina tu come si starebbe freschi. Che idea, quella dei nostri antenati, di voler morire dal freddo! È vero,—soggiungeva il degno gentiluomo, temperando l’asprezza del suo troppo moderno giudizio,—che gli antichi lo sentivano meno, il freddo; ed è forse per questo che durarono tanto.—

      Giaume, il vecchio castaldo dei Vaussana, aspettava Maurizio ai piedi dell’erta, e fu il primo a dargli il bentornato. La sorella Albertina lo accolse a braccia aperte, sulla soglia del portone; benedetto portone, sormontato dallo scudo dei Sospelli, di rosso, al libro aperto d’argento, caricato d’una spada in palo, del medesimo, col motto «tout droict Sospel», continuo tema di pazze congetture agli eruditi mandamentali.

      La contessa Albertina aveva fatto preparare per suo fratello l’appartamento dei vecchi al primo piano. Non era egli oramai il signore del castello? Ma il nuovo arrivato, in omaggio ai ricordi, amò meglio di ritornare nel quartierino della torre, in quelle due camerette che aveva ancora occupate la notte prima di andare a Genova, per entrare nel collegio di Marina. Si sentì giovane, anzi ragazzo, là dentro; e la mattina seguente, aprendo gli occhi e rivedendo il suo nido alla luce dell’aurora, gli parve di non essersi mosso mai da quel luogo. Tutte le cose intorno a lui sorridevano, con quell’aria domestica che è data ai mobili di casa dalla loro istessa vecchiaia. Maurizio stette un’ora buona a guardar tutto attentamente, incominciando dal suo letto di legno dipinto di celeste a fiorami; passando poi allo specchio dalla cornice barocca indorata, con una luce di Venezia tutta sfiorita dagli anni, al canapeino di legno, dipinto nello stile del letto, all’armadio, al tavolino, alla piccola libreria, dov’erano ancora i suoi libri di scuola.

      Poco lontano di là, al secondo piano del palazzo, era una libreria ben più ricca, quella del babbo, che era stata anche di due generazioni anteriori: libri vecchi, ma in gran numero, quasi tutti di storia, e di erudizione. Il fatto suo, non vi pare? Ed egli per l’appunto aveva contato su ciò. Il suo primo pensiero fu di riordinare in quindici o venti giorni quella libreria, da tanti anni dimenticata; avrebbe veduto frattanto che cosa ci fosse di utile per sè, nella compilazione dell’opera che aveva disegnato di scrivere. Voleva seguitare a dormire nella sua cameretta di adolescente; l’attigua gli sarebbe servita come spogliatoio; tutte le altre del secondo piano, che venivano in fila, le voleva ridurre a stanze da lavoro, coi libri, le carte murali, gli atlanti, e tutto l’altro che gli bisognasse.

      Del resto, si stava molto bene lassù, con una vista impagabile. Dalla finestra della sua camera da letto vedeva anche meglio la montagna vicina, col castello della Balma, da cui lo separava una boscaglia tutta nera e folta, assai pittoresca, ottima per andarci a passeggio nell’estate, corsa com’era da sentieri solitarii e tagliata per mezzo da una valletta, con una bella cascata, bianca come il latte, rumorosa come il mare, quando viene a frangere in una caverna a fior d’acqua. La chiamavano l’Aiga, e qualche volta anche la cascata del Martinetto. Egli la sentiva per l’appunto rumoreggiare, come vent’anni addietro, quando si addormentava alla sua nenia dolcemente monotona.

      Albertina approvò tutti i disegni di Maurizio. Approvava ogni cosa, felice di riavere il fratello, e di ritrovarlo lo stesso di prima, nel modo di pensare, di sentire, di essere. Egli, del resto, era sempre giovane. Lei, piuttosto, immutata nell’animo, era tutt’altra oramai nell’aspetto, invecchiata parecchio, sebbene non avesse che un anno più di lui. Ma le donne, si sa, invecchiano a star sole, più che non facciano gli uomini. Ebbene, che importava ciò? Sarebbe stata anche meglio una madre, per lui, con la precoce autorità delle rughe. Hanno questo spirito di sacrifizio, le vecchie zittelle buone. Quanti fili d’argento nei cappelli neri della contessa Albertina! Ma diritta ancora, diritta sempre, come la spada in palo, nello scudo dei Sospelli; o meglio, diritta come la propria coscienza, e sorridente, serena, luminosa come una santa sull’altare.

      Quella mattina, essendo giorno di festa, fratello e sorella uscirono insieme, per andare alla chiesa. Maurizio vide per la strada e sulla piazza maggiore molti visi maravigliati: ne riconobbe parecchi, e con tutti andò subito all’abbordaggio. Non era mai stato superbo, e non faceva consistere la nobiltà nella mutria. Erano compagni di scuola, rimasti nel borgo, quasi tutti della classe media, tra povera ed agiata: a vicenda agricoltori, industriali e meccanici, come spesso occorre nei paesi di montagna; piccoli intelletti, nei quali la istruzione primaria e la secondaria non avevano fatto miracoli, ma nei quali la educazione sana e la vita ristretta agli esempi domestici avevano conservato ottimi i cuori. Restavano naturalmente un po’ timidi; ma la timidità rende gli uomini facilmente più amabili. Tutti quei vecchi compagni di scuola e di giuochi infantili erano tanto più amabili con Maurizio, in quanto che niente era intervenuto a turbare la cortesia delle relazioni, niente ad inasprire gli animi, fosse pure per una settimana, o solamente a intiepidire le amicizie, come avviene pur troppo nella convivenza di tutti i giorni, per gli attriti inevitabili dei piccoli interessi offesi, o delle piccolissime questioni del comune, della fabbriceria, dell’asilo. Furono tutti felici di stringer la mano al contino (così lo chiamavano ancora, come lo avevano chiamato da ragazzo, vivente il signor Vittorio suo padre); felicissimi quando seppero che era stanco del servizio, che non lo avrebbe ripreso, e che sarebbe rimasto a lungo tra loro.

      La chiesa parrocchiale era bella, assai più bella dentro che fuori: nuove le dorature, ed egualmente gli affreschi, frutto di risparmi dell’opera, di limosine accumulate e di aiuti straordinarii di agiate persone. Aveva un bellissimo altar maggiore, tutto di marmi incrostati a fiorami di vario colore, imitanti un drappo di broccato antico. Quello era stato un dono fatto cento cinquant’anni addietro alla chiesa da un Sospello di Balma. In una cappella laterale, dentro una gran nicchia protetta dalla sua invetriata, si vedeva una statua di san Giorgio a cavallo, in atto di piantar l’asta nella gola spalancata del drago. Era una statua da portare in processione il 24 di aprile, ricorrendo la festa del santo onde aveva nome il paese; e quel buon saggio