Il mio frate non minia, ti ho detto; nè io son riuscito a miniar lui con arte degna del tema. L’ho tirato giù alla grossa, ma vedendolo bene; e penso che questo si debba sentire da tutti coloro che lo vedranno apparire a suo tempo, nel corso di queste pagine, viva figura di combattente, o larva di promessi rimorsi per due povere creature condotte dal destino all’aspro dissidio tra la passione e il dovere, tra la natura obbedita e la legge violata. Intorno alle quali cose, io credo che il mio pensiero, essendo chiarissimo, non si possa frantendere nè falsare da uomini di parte, credenti o miscredenti che vogliano essere: ma certo non sarà male renderlo più evidente colla giunta di poche altre considerazioni.
La società moderna, per giudizio di alcuni, va bene abbastanza, volgendo apertamente ed infallibilmente al meglio, alla liberazione, alla certezza, alla luce. Non tanto sfoggio di sostantivi, mi raccomando. Spero anch’io che volgerà al meglio, se per merito di qualche evento prodigioso le capiterà di rimettersi in gambe: per ora mi sembra che zoppichi; e guai se lo zoppo fa a correre; vuol esser tombola, non ti pare? La grande rottura, avvenuta da un pezzo, e di questi tempi condotta agli estremi, tra la scienza e la fede, ha tra parecchi buoni effetti il cattivo di lasciar la morale senza guida, senza sostegno, in un momento sociale che più avremmo bisogno di lei; mentre le moltitudini, felicemente sciolte da tanti vincoli molesti, sentono più vivo il gusto della libertà e lo estendono volentieri a tutti i godimenti dell’essere; mentre tutti gli accorti, segnatamente i meglio provveduti, i meglio collocati nel mare magno della vita, dopo aver tremato un pochino di certe raffiche minacciose, si rassegnano alla burrasca, vogando alla galeotta e ripetendo tra sè il motto infame di Luigi XV: «après moi le déluge»; mentre lo stesso fondamento della società, che è la famiglia, non ha più un medesimo pensiero, un medesimo criterio, un medesimo istinto, per tutte le persone che la compongono. Nel modo di vivere, di sentire, d’intendere, di curare la conservazione delle tradizioni, degli averi, delle virtù private e domestiche, principio delle pubbliche e civili, noi non sembriamo già più i figli dei nostri padri: gran soluzione di continuità, che dovrebbe farci pensare! Così la famiglia si disunisce, un po’ per debolezza sua, molto per colpa de’ suoi capi, che non l’hanno più per santuario, come gente civile, ma per rifugio, come selvaggi primitivi. L’uomo va per un verso, e la donna per l’altro, secondo gli umori, i gusti, le vanità; crescano i figli come vogliono e possono; e padri e madri e figliuoli con molti bisogni, perchè con molti appetiti; senza ideali, perchè senz’ombra d’idee.
Restaurare nel civile consorzio il senso morale parrà necessario a chi pensa; e necessario veder cominciare la restaurazione dai capi, dai capi della famiglia, dai capi della società, donde l’autorità deriva, donde gli esempi si spargono. Ma noi non faremo niente senza virtù private, senza idealità che le informino, scaldandone la buona semente nei cuori. Tanto io credo, «e creder credo il vero». Per ritornare al libro che ti offro, esso sarà giudicato come vorrà essere; anzi diciamo pure, pronosticando, che non sarà giudicato affatto. Viviamo in un paese di gente savia e prudente, che aspetta di fuori sentenze ed oracoli, mode, predizioni del tempo ed almanacchi. Mi preme soltanto che il libro sia sentito da coloro che lo leggeranno. Da ventimila, dice l’amico editore, sperando: da venti, dico io, già molto ambizioso, se penso ai venticinque di cui si contentava il Manzoni: nel fatto, levando tutti gli zeri, me ne bastano due.
Eravamo in due all’Acqua Novella, te ne rammenti? C’è là, in un angolo felice della nostra Liguria occidentale, il più antico e il più recente mio ricordo campestre. Vidi da bambino ed amai quella voltata in discesa dalla balza di Bergeggi a Spotorno, con le rovine dell’èremo di Sant’Antonino, piantato nel vivo della rupe ferrigna, sotto i ciuffi degli arbusti che gli fanno ombra dal ciglio sfaldato del gran masso imminente. Era allora il mio sogno d’essere il padrone dell’èremo, di restaurarlo, di farmi frate là dentro, frate di un ordine mio, molto benedettino per la copia dei libri, molto templario per la quantità dei conversi; gaudenti essi della vita materiale, gaudente io della felicità intellettuale, in quella grata solitudine, difesa dai venti freddi, con quel lembo di cielo opalino, con quella lista di mare turchino davanti, dimenticando tutto l’altro dello spazio e del tempo, ignorando l’ora degli altri, aspettando la mia senza troppo curarmene. Veramente, l’orologio non era lontano; orologio solare, sul terrazzo di una casa verdognola, trecento passi più in là, nel bel mezzo di un orto; con quella sua leggenda: «ultima necat» che fu la prima frase latina capitata davanti a’ miei occhi, e che mi dava sempre tanto da pensare, tutte le volte che passavo da quelle parti. Quando fui in grado da intenderla, amai compirne l’idea, premettendole un «vulnerant omnes». Ma per allora non era il caso di filosofarci su; ed io non filosofavo, sentendo il desiderio di quella pace, sognandola tutta per me.
Era un sogno, e finì come finiscono i sogni. Ma i bei sogni si ricordano volentieri; ed io più volentieri l’ho ricordato, tornando or non è molto con te alla tua bella Spotorno, bianca lucente sulla spiaggia lunga, tra la voltata di Bergeggi e il monte Orsini, aspra guardia di Noli. Ad un certo punto, e di comune accordo, abbiamo fatta fermar la carrozza; io per contemplare il mio èremo, tu per farmi bere un sorso della fontana lì presso, l’Acqua Novella, zampillante da una gran vasca quadrata, sul margine della strada maestra. O acqua ben nomata, veramente fresca, ristoratrice e pura, come tutte le cose novelle! Io non sogno più solamente il mio vecchio èremo e la mia vecchia meridiana; sogno ancora l’Acqua Novella e quel buon tratto di strada quieta, che abbiamo fatta a piedi con tanta allegrezza, mentre i cavalli ci seguitavano al passo. E penso ancora, nel mio sogno, che l’uomo più felice della terra debba essere un certo guardiano di strada ferrata, che ha il suo casotto in quelle vicinanze, col suo orticello, i suoi fagiuoli e il suo gran fico brogiotto, accanto allo sbocco della galleria di Bergeggi. Poveraccio! e forse egli sogna a sua volta un trasloco, una promozione, che lo sbalzi guardia eccentrica o guardia di sala in qualche stazione importante, donde gli sia facile di mandare a scuola le quattro o cinque creaturine che senza fatica, quasi senza un pensiero al mondo, gli sono rampollate là dentro.
Son tutti così, i miei bravi cantonieri di strada ferrata. Ricordo ancora quello di Varigotti, conosciuto tanti anni fa. Aveva anche lui una bella fontana daccanto, anzi una vera cascata d’acqua, che piombava dalla balza rossastra, sotto la chiesuola abbandonata di San Lorenzo; aveva un orticello, con pèschi, fichi e fagiuoli, ch’erano una