Ma se una felicità compiuta non si ritrova in nessun luogo, neanche là dove io l’avevo sognata, bene mi sarà lecito di desiderare che la vita sia più ricca d’ideale, e che un’acqua novella, se pure non ci si debba vivere accanto con oraziana serenità, rinfreschi e purifichi le nuove generazioni; che il sentimento del divino, ingenito nella coscienza umana, si accordi un giorno colla critica non più arrogante di facili dispregi, colla scienza non più infatuata di sollecite deduzioni, e venga in buon punto a rinvigorire di nuovi succhi la povera morale intristita. Questo è il mio sogno dell’età matura, e credo che questo sia pure il tuo. Tu hai, a buon conto, una famiglia nata di te; vuoi che abbia i tuoi stessi ideali, riflettendo alcun che di quelli che tu stesso derivi dai tuoi vecchi; ai quali con animo reverente mando un augurio e un saluto filiale ancor io.
Comunque esso sia riuscito per l’arte, il mio libro è morale. Non già come un trattato; credo anzi che ci corra molt’acqua, e tutt’altro che novella, di mezzo. Ma esso è morale, nondimeno, come può essere tale un romanzo; cioè a dire una rappresentazione della vita reale, aspersa d’una certa idealità, che è poi la nota personale fatalmente recata dall’artista nella cosa veduta, nella cosa sentita ed espressa.
Ritorneremo col bel tempo all’Acqua Novella e al vecchio èremo diroccato. Tu ama intanto il tuo
Anton Giulio Barrili.
TRA CIELO E TERRA
Capitolo Primo.
Addio, bel mare!
Gli avevano fatta un’ingiustizia, saltandolo nelle promozioni; perciò, a mala pena sbarcato, aveva mandata la sua dimissione al ministro. Per la via gerarchica, s’intende; e il capo del suo dipartimento marittimo, alla Spezia, si era degnato di esortarlo a pensarci su, almeno un paio di giorni. Per non fargli dispiacere col mostrarsi sconoscente alla cortesia del superiore, aveva accettato il consiglio; ma, quarantott’ore dopo, si era ripresentato al suo illustre capo, pregandolo di dar corso alla lettera.
Tra gli uguali, qualche amico sincero aveva tentato dissuaderlo, arrischiandosi a dirgli che commetteva un errore; ma egli non aveva voluto convenirne. Altri gli dicevano: «Fai bene; è stata un’ingiustizia; le ingiustizie non si sopportano». Ed egli rispondeva con un vivo cenno di assenso, quasi di ringraziamento, come uno che si senta compreso, congedandosi con una poderosa stretta di mano da tutti quei vecchi compagni, ai quali lasciava un gradino vuoto su quella scala di Giacobbe che conduce al paradiso del viceammiragliato.
Era sicuro del fatto suo; la risoluzione gli pareva buona, per il caso presente e per i casi futuri. Infatti, che cosa sperare da quel ministro, che era stato suo comandante in una memorabile crociera e che aveva mostrato in parecchie occasioni di non poterlo soffrire? Effetto di una ruggine antica, per una manovra fatta da lui, di suo capo, che il comandante non aveva ordinata, che anzi aveva biasimata. Un po’ troppo presto, per altro: lo scandaglio, la mattina dopo, aveva dimostrato a tutti che seguendo ciecamente gli ordini del comandante si sarebbe rimasti incagliati. Quattro palmi di sàgola avevano dato ragione all’inferiore; e il superiore se l’era legata al dito, quantunque l’inferiore si fosse studiato con ogni maggior cura di non lasciar trasparire il sentimento della propria superiorità. Una promozione, dopo quel giorno malaugurato, era venuta per tutt’e due, l’uno giungendo al grado di tenente di vascello, l’altro al grado di contrammiraglio. Due anni ancora, e il contrammiraglio diventava ministro. Il ministro si era slegato finalmente il dito, saltando nelle prime promozioni il tenente di vascello.
Lagnarsi? È presto detto. In che modo? Aspettare che cascasse il ministro; sì, fra due o tre anni, e intanto divorarsi l’affronto. No, niente aspettare; perciò aveva mandata la sua dimissione. Cosa amaramente spiacevole per lui, quanto edificante per tutti, la sua dimissione era stata accettata a volo. Brutto momento, vedersi così di punto in bianco fuori dell’uscio! Ma c’è «la buona compagnia che l’uom francheggia»; e questa, nei brutti momenti, consola.
Ahimè, non del tutto. A lui una pena sorda restava nel profondo dell’essere. Amava il mare; il bel mare, così pieno di misteri, così magnifico nella collera, così augusto nella calma, che pare abbia un’anima, e grande, meravigliosamente grande, grande almeno sei volte quella dell’umanità tutta quanta; il buon mare che mette in comunione tutte le creature viventi, assai più ed assai meglio che non facciano tante strade ferrate e tanti telegrafi. In questi dotti congegni c’è sempre l’arte di un mondo piccino, piccino come tutte le trovate degli uomini; c’è sempre l’idea di sentirsi passare in una cruna d’ago, assottigliati, stiacciati, tanagliati dagli attriti continui del passo. E poi, che cosa sono le invenzioni dell’uomo, ristrette ad un solo ufficio, ordinate ad una sola utilità, in confronto di quella superficie azzurra, pianura liquida e senza solco, che palpita e porta, mobile, gloriosa e superba, che dà moto e gioia a tanti organismi animati, colore agli occhi, calore agli spiriti, essendo ad un tempo la via e la vita?
Tutto è nuovo su quella via, l’abbiate pure cento volte percorsa; ve la fanno parer sempre nuova i mille diversi aspetti delle cose, nella vastità sconfinata degli orizzonti, nella infinita varietà delle tinte, mezze tinte e sfumature, dell’aria e dell’acqua. Il punto a cui volgete la prora è di giorno una striscia di azzurro, di grigio, di roseo, sull’ultimo lembo del mare, una striscia tenue che non vi offre il colore stridente nè i contorni aspri del vero; nella notte, poi, è un punto di fuoco, che getta sulle acque un raggio luminoso; più spesso, e di giorno e di notte, è l’invisibile, il nulla, ma con la sublime certezza di vedere, di trovar qualche cosa, al momento prefisso, sulla via che vi dimostrano le stelle, che vi traccia infallibilmente un computo aritmetico. E intanto il lontano fa pensare; l’occhio intravvede l’infinito; l’anima sente Dio; nè ci sono professori di calcolo per rimpicciolirvi quello con la figura di un otto coricato, nè filosofi del malanno per dirvi che questo è un sogno, una idiosincrasia naturale, una concrezione storica del vostro pensiero.
Con che ansia, adolescente allievo del collegio di marina, aveva aspettato il giorno del suo primo imbarco! Con che passione aveva fatto il suo primo viaggio, quindici anni addietro! Lo aveva sentito cantare e sospirare, fremere, urlare e ruggire, quel mostro immane dai grandi occhi verdi e dal dorso di spume! E lo aveva ammirato nella molteplicità degli aspetti, soavi e terribili, graziosi e feroci, sempre nuovi e stupendi; lo aveva amato nella salubre vivezza delle fragranze, nella dolce giocondità dei ritmici cullamenti. E dopo tante ammirazioni, dopo tanti amori, lo aveva lasciato! Ma sì, che volete? gli avevano fatta un’ingiustizia. Le ingiustizie non si sopportano, o si mostra di averle meritate; nel qual caso non sono più ingiustizie, ne convenite? Triste cosa, per altro! Aveva sempre sognato una guerra, da far le sue prove anche lui, da onorare l’Italia, questa lunga penisola che pare una gran nave imbozzata attraverso il Mediterraneo, e che non dovrebbe starci, perdio, come un pontone, come una fregata in disarmo. Quella guerra non l’aveva certamente invocata; il valoroso non invoca i pericoli, che non sono solamente per sè, ma per tutti; li aspetta, e si prepara ad affrontarli.
Aspettando la guerra, preparandosi a quella, il soldato serve la patria. E perchè non l’aspettava egli ancora, passando sopra ad una cattiveria di ministro? Infine, gli uomini passano, la patria resta. Verissimo, questo; ma è verissimo ugualmente che son tutte parole. La patria che resta è sorda, cieca e muta; non vi sente, non vi vede, non vi conforta