Sotto il velame: Saggio di un'interpretazione generale del poema sacro. Giovanni Pascoli. Читать онлайн. Newlib. NEWLIB.NET

Автор: Giovanni Pascoli
Издательство: Bookwire
Серия:
Жанр произведения: Языкознание
Год издания: 0
isbn: 4064066070403
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sente dire all'aquila, nel cielo di Giove:

      è tenebra,

       od ombra della carne o suo veleno.

      L'ombra della carne è incontinenza, il veleno è malizia. Bene: la selva è tenebra e solo tenebra.[105]

      È, per conchiudere con altro luogo della Comedia, è lo stato dell'animo che “confusamente apprende„ il bene, nel quale quietarsi. Egli non è ancora o non è più “diretto„, ma al bene aspira. I disiri di Beatrice, in vero, al bene menavano l'amatore. Ma egli non era “diretto„; era fuori della “diritta via„. Or ciò non vuol dire che il suo animo errasse “per malo obbietto„; poichè cercava il bene; nè “per troppo o per poco di vigore„; poichè il bene non lo trovava, e l'amor suo non era mai nel caso di misurar sè stesso, perchè non raggiungeva ciò che seguiva, e ciò che seguiva era un'imagine falsa e una vanità.[106] Nella tenebra dove Dante errava, non era alcuna virtù, ma non era alcun vizio.

       Indice

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      Una porta è, senza serrame.[107] Dopo la porta un grande spazio dove l'aria è tinta e il lume è fioco.[108] Quello spazio, che digrada, ha per limite una riviera: un fiume grande, da parer palude, con acqua limacciosa e opaca. Una nave s'appressa per lo stagno livido. Fiammeggiano da essa, come uniche scintille in tutta questa opacità d'acqua e d'aria, due occhi di bragia. Sono d'un nocchiero vecchissimo.[109]

      A ogni momento nella ripa s'affolta gente. Il nocchiero appressa la barca, gridando parole d'eterna sanzione. Nella gente, cioè tra le anime, sorge uno strepito di denti e di bestemmie e di pianto. E s'avanzano in quel barlume verso la riviera e verso i due occhi di fuoco. Formano quasi un grappolo, un ramo, un albero. Da esso si staccano a una a una le anime, foglie che appena si tengano al ramo per il picciuolo mortificato, cui assalgano i primi venti freddi dell'autunno.

      Guardando verso la palude, si scorge però che non si staccano da sè, ma via via per cenni del demonio barcaiuolo. E allora non sembra più quello lo sfogliarsi e il mondarsi d'un ramo. Quel formicolìo d'anime sembra uno stormo di uccelli, dei quali ognuno, l'un dopo l'altro, si butti a terra per il richiamo di quell'orribile uccellatore.

      La nave s'allontana su per l'acqua opaca e nera. Non è di là quella nave, nè sono ancora discese quelle anime, che di qua s'affolla nuova gente. E la barca ritorna, e suonano le grida di quel dimonio, si vedono nell'oscurità quei due occhi simili a carboni accesi che ruotino; e si forma di nuovo quell'albero di foglie caduche, e di nuovo si monda.

      Così Dante ha veduto la morte:[110] la morte di quelli che muoiono nell'ira di Dio.

      Ora tra la porta aperta e la livida palude, in quel grande spazio, c'è, direi quasi, un mulinello perpetuo di foglie secche, che nè escono dalla porta aperta nè si gettano nella barca. Questo mulinello che non si ferma mai, è una lunga tratta di gente, una turba infinita d'anime, che corre, piangendo, urlando, guaendo, dietro un'insegna, che gira, come da sè, in quell'aria oscura. E quella tratta, quel groppo vorticoso, gira e corre perpetuamente come in un aperto e ventoso vestibolo.

      Diverse lingue, orribili favelle,

       parole di dolore, accenti d'ira,

       voci alte e fioche, e suon di man con elle,

      facevano un tumulto, in qual s'aggira

       sempre in quell'aria senza tempo tinta,

       come la rena quando a turbo spira[111]

       Passata la riviera, ecco la proda della valle d'abisso. Da essa esce un lamento infinito. E infinita è la sua oscurità. Si scende e si entra nel primo cerchio.

      Quivi, secondo che per ascoltare,

       non avea pianto ma' che di sospiri,

       che l'aura eterna facevan tremare:

      ciò avvenìa di duol senza martiri,

       ch'avean le turbe, ch'eran molte e grandi,

       e d'infanti e di femmine e di viri.[112]

      In questo cerchio non c'è altro pianto, che di sospiri; il che Dante altrove conferma e dichiara, dicendo che in esso[113]

      i lamenti

       non suonan come guai, ma son sospiri

      E questa e quella espressione sono così formate da richiamare e correggere quella usata per il vestibolo, dove oltre i sospiri sono pianti, e i lamenti sono guai e alti guai:

      quivi sospiri, pianti e alti guai.[114]

      Inoltre i sospiri nel limbo sono l'effetto “di duol senza martiri„, il che non può dirsi nei correnti nel vestibolo che[115]

      erano ignudi e stimolati molto

       da mosconi e da vespe ch'eran ivi.

      Elle rigavan lor di sangue il volto,

       che, mischiato di lagrime, ai lor piedi,

       da fastidiosi vermi era ricolto.

       Vero è che questi martirii hanno in sè, come un cotale spregio, così una tenuità relativa a' terribili tormenti del vero inferno; sì che Dante che forse non s'è accorto delle noiose bestiole che stimolano quelli sciaurati o a ogni modo crede quei lamenti e quell'avvilimento effetto troppo grande di così piccola causa, domanda:[116]

      che gent'è che par nel duol sì vinta?

      e torna a domandare:[117]

      Maestro, che è tanto greve

       a lor, che lamentar gli fa sì forte?

      E il maestro (cosa notevole) assegna del forte lamentare cioè del loro guaire una cagione spirituale:[118]

      Questi non hanno speranza di morte:

      il che si riscontra con la cagione dei sospiri che traggono quelli del limbo; perchè il loro duolo non nasce da martirii, ma sol di questo, che, come Virgilio dice anche di sè,[119]

      che senza speme vivemo in disio.

      Nè questi nè quelli hanno speranza. E hanno tra loro altre somiglianze. Sono gli uni e gli altri moltissimi. Dietro l'insegna veniva[120]

      sì lunga tratta

       di gente, ch'i non avrei mai creduto

       che morte tanta n'avesse disfatta.

       Nel limbo erano turbe di quei sospirosi, e le turbe[121]

      eran molte e grandi,

       e d'infanti e di femmine e di viri.

      Ma Dante avanti i lamenti e le moltitudini del vestibolo aveva sì la testa cinta d'orrore, pure il suo maestro non gli lascia concepir pietà di quelli sciaurati; mentre nello scendere al limbo il poeta è tutto smorto, e non d'orrore ma di pietà.[122] E Dante appena sa il duolo di questi ultimi, è preso subito al cuore da gran duolo anch'esso. E se nel vestibolo sente dire che quelle sono[123]

      anime triste di coloro

       che visser senz'infamia e senza lodo,

      e se là incontanente intende, ed è certo,[124] che quelli formano la setta dei cattivi e sono[125]

      sciaurati che mai non fur vivi,

      qua invece conosce che in quel limbo sono sospesi[126]

      gente di molto valore.

      Il che è proprio un'antitesi, chè valente nel Convivio e nella Comedia è il proprio contrario di vile. E mentre Virgilio professa di volere risparmiar parole, in proposito degli sciaurati del vestibolo, “Dicerolti molto breve„, e infatti conclude il breve discorso con le parole,