— Ve ne andrete, la carrozza è attaccata... Va' a prender gli scialli, Stefana... Ve ne andrete tutt'e tre, con Miss... Resto qua io... Andiamo, basta!
Alzatasi, ella implorava ancora, con le braccia tese ansiosamente, di poter passare di là; ma tutti la trattenevano.
— Va'!... Teresa!... Fate presto, il cocchiere ha da fare... non perdiamo tempo... Andiamo!...
Scese così, sospinta, tentando di voltarsi, con lo scialle che le cadeva per terra, mandando dei baci alla finestra spalancata e lucente nella notte muta e serena.
La carrozza partì. Rannicchiata in un angolo, accanto al babbo, ella soffocava i singhiozzi che le salivano alla gola. Cogli occhi sbarrati sulla via polverosa che pareva scorrere come un fiume, con una mano premente sul cuore, ella si ripeteva, trattenendo il respiro: «Sorella mia!... sorella mia!...» e uno stupore l'irrigidiva, pensando che mai, mai più l'avrebbe rivista. «Sorella mia!... sorella mia!...» Che fuoco!... che dolore!... Pensare sempre a lei! Stamparsi nel cuore la sua dolce figura! averla sempre dinanzi per tutta la vita!
— I fiori!... i fiori che avevo colti per lei!
Il pianto riprendeva, lungo, cocente. Era morta! morta!... La gran macchia di sangue... il viso di cera... Se non fosse morta?... Perchè le avevano impedito di baciarla?... Ma i medici li avevano ingannati, non avevano detto che doveva finir così presto!... Se lo avesse saputo!... Come avrebbe voluto starle in ginocchio dinanzi, tutti quegli ultimi giorni!... E invece aveva pensato a svagarsi, aveva riso, aveva pensato ad altri!... Allora, come dei chiodi le entravano nelle carni: tutti gli sgarbi che le aveva fatti, le insofferenze da cui era stata presa udendola tossire, le distrazioni che aveva cercate, le cure che non le aveva prodigate, i baci che non le aveva dati e che non avrebbe potuto darle più, mai! E la sua bontà, la sua pazienza di piccola martire, e il bene che aveva voluto a lei... «Sorella!... Sorella mia!...» Ma le lacrime cessavano di scorrere, nell'angoscia da cui si sentiva presa ricordando tutte le liti che le aveva cercate, le cattive parole che le aveva dette quand'era bambina: «Mummia sgobbona... dottoressa bestia...» Come aveva potuto? A un tratto, rammentava l'ira con cui l'aveva picchiata, una volta, la vampa che l'aveva acciecata intanto che batteva quel piccolo corpo — e si portava le mani al collo, lo stringeva, soffocando un rantolo sordo...
La campagna era chiara come all'alba; il riflesso della luna tremolava sul mare, e la via non finiva più, quella via fatta tante volte, con la gaiezza in cuore, insieme con la sorellina morta, con la mamma morta... Morta! Morta!... E lei avrebbe potuto vivere più? Tutto era finito per lei. Era stata un'immensa sciagura la perdita della sua mamma, ma nessuno sapeva quello che lei perdeva adesso: la sua compagna, la sua confidente, il suo buon angelo consolatore!.. Non si portava con sè una parte di lei? Che cosa avrebbe fatto più, sola? Le sue labbra si torcevano dall'amarezza, pensando all'avvenire; non c'era avvenire per lei: una successione di giorni bui, con l'imagine della poveretta sempre dinanzi, sempre nel cuore...
Adesso entravano nella città addormentata, silenziosa; le mura del castello, enormi, tagliate dalla luna, correvano, sparivano; ed a casa la desolazione cresceva, dinanzi al letto vuoto della sparita, dinanzi a tutti i piccoli oggetti che le erano appartenuti, sui quali ella metteva dei baci disperati.
Che notte! che oppressioni! che risvegli terribili! E che tristezza nel nuovo giorno! Che scoppii di pianto ad ogni notizia, ad ogni viso nuovo!
— La portano via a mezzogiorno... A San Francesco di Paola...
— Dei fiori... copritela di fiori bianchi!...
Erano delle grida convulsive che le uscivano dalle labbra, non erano parole.
E il suono orribile delle campane, che la faceva balzare in piedi a ogni ripresa, e il cadere pauroso del giorno, e il ritorno del nonno, invecchiato di cent'anni, con la schiena curva, gli occhi aridi, le mani tremanti... Come gli divorava la mano a baci, egli la trasse in disparte, con un'aria di mistero, nella sua camera.
— Vieni!... zitta, vieni...
Cavò di tasca il suo gran portafoglio di cuoio, lo aprì e ne trasse una busta. Aprì anche quella, con le mani che gli tremavano spaventosamente, e come trasse la ciocca di capelli morbidi e neri, scoppiò in pianto anche lui.
— Ah!... ah!... nonno!...
Erano terribili le lacrime del vecchio, le contrazioni spasmodiche del suo viso rugato. A un tratto, s'alzò, e mostrando un pugno al cielo, gridò:
— Cristo!...
Caduta sopra una poltrona, ella aveva perduto i sensi. Le convulsioni la ripresero, restò lunghi giorni a letto. Adesso venivano le visite: erano il nonno ed il babbo che le ricevevano, vestiti a nero, con le voci rauche. Parlavano tutti piano, l'uscio di casa restava aperto, non si udiva suono di campanello, entrava chi voleva; e Stefana, venendo al suo capezzale, le riferiva i nomi delle persone che erano di là. Venne anche Luigi Accardi, coi suoi; ma quel nome non le fece nessun effetto: le pareva che fosse passato tanto tempo! Aveva un gran vuoto nella testa.
Il babbo partì, poi vennero gli zii di Palermo; nulla rompeva la tristezza di quella casa, niente leniva il dolore di lei.
Il dottore disse un giorno:
— Perchè non ve ne andate fuori? Sarà la miglior medicina!...
E come tutti restavano in silenzio, riprese:
— Andate via, andate a Palermo; svagatevi un poco... Volete che anche quest'altra creatura pigli un malanno serio, si assoggetti a questi disturbi?
La zia insisteva anche lei, diceva che il soggiorno di Palermo era necessario per completare l'istruzione di Teresa, per farle vedere un poco il mondo. Ella udiva quei discorsi, indifferente, senza dir nulla, come se si trattasse di un'altra.
Così fu decisa la sua partenza insieme con Miss; il nonno volle restare, non ci fu modo d'indurlo.
— Sono vecchio... voglio restar qui... Vi dico di no.
Prima di partire, andarono con la zia e con Miss, in carrozza chiusa, su a San Francesco di Paola. Inginocchiate dinanzi alla lapide bianca, empirono la chiesa di sommesse querele, di singhiozzi soffocati. Poi si divisero in pianto dal nonno; egli baciò a lungo in fronte la nipotina.
Quando il vapore cominciò a muoversi, ed uscì dal porto, e sfilò lungo la Marina, dinanzi alla linea del paese che finiva sotto i Cappuccini, ella restò a guardare tutti quei luoghi, col cuore chiuso, cogli occhi cocenti. Cercava la sua casa, dov'erano successi tanti avvenimenti; San Francesco di Paola, dove riposavano la mamma e la sorella, la villa del Capo, la Lanterna, la spiaggia remota di San Papino... e quando tutte quelle cose furono scomparse, e restò solo il mare d'un azzurro così carico che pareva quasi nero, ella ebbe freddo e paura.
VI.
Erano tristi pure i primi giorni di Palermo, ma d'una tristezza diversa. Anche a restare in casa, il frastuono della città, il movimento che si sorprendeva dalle finestre, il succedersi dei visi nuovi procuravano delle distrazioni involontarie. Poi, col nonno, quantunque fosse tanto buono, ella non si poteva intendere così bene come con la zia.
Le condizioni della sua salute richiedevano che ella facesse molto moto; così la mattina a buon'ora andava fuori; giravano a lungo pei negozii, o si facevano lasciare in carrozza al Giardino Inglese, all'Olivuzza, ai Quattro Canti di campagna, donde ritornavano a piedi.
La morta era sempre fra loro; però non ne parlavan mai. Ella non voleva lasciare il lutto: sapeva che dopo sei mesi avrebbe potuto smettere quello grave, ma contava di portarlo per degli anni, per sempre. Sorrideva tristamente, quando si guardava allo specchio, quando apprezzava, senza volerlo, il risalto che le vesti nere davano alla sua carnagione rosea, ai suoi capelli d'oro. Le pareva che quella salute, che quella bellezza fossero un'irriverenza verso la sua povera sorellina morta: avrebbe voluto che il suo viso esprimesse ciò che il suo cuore sentiva; provava un senso di contrarietà quando si