La slealtà le repugnava; ma, infine, importava poco quel che dicevano di lei le sue rivali. Ella avrebbe voluto sapere piuttosto che cosa pensavano gli uomini. Vi era uno dei Crociati, Raimondo Almarosa, che la guardava spesso: non era più giovane, ma quanto più attraente di tanti altri giovani! Alto, magro, biondo d'un biondo che diventava bianco, serio, quasi sempre malinconico per la perdita della moglie e della figliuola sofferta in uno stesso giorno. Che cosa vedeva in lei? Una rassomiglianza? una delle sue morte redivive? Ella si perdeva in fantasticaggini. A teatro, quando uno sguardo si fermava su di lei, pensava a Giuseppe Balsamo, al magnetico potere che certuni sapevano spiegare. I romanzi erano sempre i consiglieri ai quali ella domandava i suoi giudizii, i suoi pensieri. Adesso ella conosceva la vita! Ed era una vita intensa che viveva, con quei libri. Slanci d'ammirazione e dolori sconfinati, raccapricci e simpatie, sorrisi e lacrime, essi le davano tutto. A volte, dopo lunghe ore di lettura, si alzava con un'oppressione fisica, una nausea, un disgusto per tutte le cose, per le volgarità dell'esistenza a cui doveva sottostare e che l'eguagliavano alla folla da cui si sentiva tanto diversa. Rifiutava i cibi, avrebbe voluto nutrirsi d'aria, finiva per procurarsi qualcuno dei soliti attacchi nervosi. Più degli eroi di quei libri, ella amava le eroine: la solidarietà del sesso l'induceva ad attaccarsi alle donne; e poi, non erano esse le arbitre dei destini umani? E le lunghe descrizioni, le pagine piene di narrazione fitta l'infastidivano: ella ne saltava molte, per arrivare ai colloquii d'amore, alle scene dolci e tremende, alle catastrofi improvvise, che la lasciavano sbalordita, con la fronte scottante. Che lacrime le costavano quei libri! Di quale amore cocente e struggente ne amava i personaggi! Ella le vedeva tutte, quelle grandi amate di cui si narravano le storie fortunose: i loro nomi le risuonavano continuamente all'orecchio: Andreina, Matilde, Emma, Cecilia. Il suo proprio nome era bello, ma ne pensava degli altri, invidiava le sue conoscenze che ne avevano di più belli, romantici: Giulia, Eleonora, Enrichetta; avrebbe voluto chiamarsi Marcella, Lidia, Remigia; o portare dei nomi stranieri: Edith, Olga, Nadina. Ed un progetto certe volte le passava per il capo: poichè la sua sorellina era morta, non avrebbero potuto chiamar lei Laura? Sarebbe stato quasi un modo di farla rivivere.
Scriveva ogni due giorni al nonno, gli riferiva i suoi progressi, gli mandava dei lavorini fatti apposta per lui. Adesso aveva anche il maestro di canto, e superate le prime lezioni noiose cominciava ad imparare il repertorio in voga. V'erano le serenate e le barcarole piene di sospiri flebili e di lacrime cocenti al tremolare della luna sulla laguna; i notturni in cui gli amanti traditi si querelavano nell'abbandono, o prorompevano in accenti di vendetta, o si rassegnavano, continuando ad amare in silenzio, costanti e senza speranza; in cui delle povere pazze vagavano pei cimiteri, a mezzanotte, cercando un nome sopra un freddo marmo; ma v'erano sopratutto le romanze che esaltavano la bellezza sovrana della donna, la sua potenza, il suo fascino. Se le lacrime d'una fanciulla cadevano fra le rose, erano goccie di rugiada; se cadevano in mare diventavano perle; ma un angelo le raccoglieva nel cavo della mano e quel nèttare lo dissetava. Un amante voleva essere l'aura che sfiorava il biondo crine della Bella, il fiore che ella sfogliava, la stella che ella mirava; un altro s'inebbriava al ricordo delle voluttà; tutti avrebbero data la vita per un bacio, per un pensiero. E la musica aveva delle successioni di note che somigliavano a singhiozzi, a grida represse, che imprimevano come un moto di culla; degli accordi gravi, pieni d'angoscia e di mistero; degli arpeggi che sollevavano da terra, che esprimevano l'estasi. Ella sentiva il cuore salirle alla gola, le ciglia inumidirsi. Voleva provare tutto questo nella vita, aspettava una grande passione. Non era così bella da ispirarla? E si guardava allo specchio trovando che rispondeva al tipo ricorrente nei libri. Si guardava le unghie per vedere se erano tagliate a mandorla; il viso era d'un ovale perfetto, la bocca piccola, porporina, i denti di perla, tranne quel canino annerito, che un giorno o l'altro si sarebbe fatto strappare. Le guancie rosee le parevano da fanciulla borghese; ma i capelli non compensavano quel difetto? Lunghi fino ai fianchi, folti, odorosi, oro fuso. Il tipo bruno non aveva però anch'esso la sua seduzione? «Bruna come la notte, come ala di corvo...» Nella sua qualità di siciliana, ella avrebbe dovuto essere piuttosto bruna... Siciliana? Viveva in Sicilia; ma era fiorentina! E mentalmente faceva l'enumerazione di tutti i paragoni del biondo: come l'oro, come un raggio di sole, come le spiche del grano, come l'uva matura... Ella aveva la piena coscienza della propria bellezza; però, tratto tratto l'antica disperazione tornava a prenderla: