— Così mantieni quello che hai promesso? — osservava Stefana.
— Non debbo smetterlo più?... Adesso l'ho portato abbastanza!... E poi, cosa importa l'abito alla Madonna?... La Madonna mi legge nel cuore!
Non voleva sentirsi criticata dalle amiche, aveva vergogna di mostrarsi in qualunque cosa inferiore ad esse. Da Firenze, dov'era stata in collegio, era venuta la figlia del marchese D'Arrico; non poteva soffrire di sentirla parlare della città in cui lei stessa era nata ma di cui si rammentava tanto poco. Certe volte pensava se non era meglio stare in collegio e in una grande città, piuttosto che in quel paesuccio. Però il collegio non era molto allegro neanch'esso!... Almeno qui, se tutti i giorni era una noia, veniva pure la festa della domenica, quando ella, appena sveglia, pensava per prima cosa: «Oggi non si studia! sono libera! mi vestirò di gala, andrò a passeggio, vedrò Luigi!...» Ma come passava presto, quel giorno! E la sera come si sentiva opprimere, pensando che la festa era finita, trovando che non ne aveva goduto abbastanza!... Non sapeva ella stessa che cosa avrebbe voluto fare, era scontenta di tutto, lo studio l'opprimeva mortalmente. Del resto, Miss non aveva più nulla da apprendere.
Il nonno annunziò un giorno che aveva preso un professore. Ella lavorava ancora ad imaginare come potesse esser fatto, quando capitò un prete, grasso, intabaccato fin sul petto, con le unghie poco pulite. Dava lezioni di lettere e di storia — per le lingue restava Miss. Le faceva mandare a memoria l'Invito a Lesbia Cidonia del Mascheroni:
«Perchè con voce di soavi carmi
Ti chiama all'alta Roma inclito cigno...»
una seccatura che a cercarla col lanternino non si sarebbe trovata l'eguale in tutto il mondo. Già, quando lei sarebbe andata in società, quando sarebbe stata in visita, a teatro, ai balli, avrebbe dovuto dire per l'appunto: «Non sapete nulla? Perchè con voce di soavi carmi!...»
Meno male il Tasso. Dapprincipio la seccava anche lui; però a poco a poco cominciò a gustarlo, vedeva i combattimenti dei Crociati coi Turchi, i duelli di Tancredi ed Argante; ed Armida, quantunque fosse una vecchia fattucchiera, le ispirava una grande pietà.
Doveva mandarne a memoria dei canti interi; però quando furono arrivati al decimosesto, intanto che lei leggeva, il professore ingiunse:
— Salti le due ottave seguenti.
— Perchè?
— Le dico di saltarle.
Le saltò, pel momento; ma, appena egli fu andato via, corse a leggerle:
Ella dinanzi al petto ha il vel diviso,
E il crin sparge incomposto al vento estivo;
Langue per vezzo, e il suo infiammato viso
Fan biancheggiando i bei sudor più vivo.
Qual raggio in onda, le scintilla un riso
Negli umidi occhi tremulo e lascivo.
Sovra lui pende: ed ei nel grembo molle
Le posa il capo, e il volto al volto attolle;
E i famelici sguardi avidamente
In lei pascendo, si consuma e strugge.
S'inchina, e i dolci baci ella sovente
Liba or dagli occhi, e dalle labbra or sugge:
Ed in quel punto ei sospirar si sente
Profondo sì, che pensi: or l'alma fugge,
E in lei trapassa peregrina. Ascosi
Mirano i duo guerrier gli atti amorosi.
Era tutto questo? Chi sa cosa si sarebbe aspettato! Che c'era dunque di male? Ma già, non bisognava parlare d'amore, bisognava fingere di non comprendere certi discorsi, evitare di guardar gli uomini, e poi se ne sentivano di belle: la moglie del barone Lipari che aveva cacciata a pedate la cameriera, perchè suo marito, quel vecchiaccio, l'andava a trovare nel letto!
V.
Un giorno Laura non si alzò. Aveva gli occhi luccicanti, le labbra aride e un febbrone da cavallo. Il dottore aspettò un poco prima di pronunziarsi, poi confabulò col nonno. Ella udì la parola tifoidea, e il nonno cominciò a fare come un pazzo. Le grida con cui mandava via la gente, con cui strapazzava le persone di servizio, s'udivano da un capo all'altro della casa. Poi, quando passava dall'ammalata diventava così buono, così dolce, così delicato, che non pareva più lui. Con le sue mani forti e rugose confezionava le pillole, regolava le dosi delle medicine, attento, minuzioso, pazientissimo. Andava lui stesso in cucina, per curare la preparazione del brodo, delle gelatine che la poveretta non assaggiava neppure. Allora lui cominciava a pregarla, a insistere, promettendole tutto quel che voleva purchè prendesse qualche cosa, accarezzandola, vezzeggiandola, e poi scoppiando a bestemmiare se l'altra, con una nausea invincibile, rifiutava ancora.
— Ebbene, nonno, prenderò quel che vuoi... non t'inquietare!...
Ella s'era messa accanto al letto della sorellina e non si muoveva più di lì. Vedendo quelle povere guancie consumate dalla febbre, toccando quelle manine ardenti, si sentiva struggere di tenerezza; avrebbe voluto prendere lei stessa il suo male, le avrebbe dato un poco del suo sangue. La sera, curvandosi a baciarla, prima d'andare a letto, le diceva:
— A domani, sorellina; ma guarita, veh!... E se guarita proprio proprio non è possibile, migliorata almeno, con una febbricina leggiera leggiera, e poi più leggiera ancora, fin quando non avrai più niente, non è vero?... Allora, vorremo divertirci, sai!... Le belle passeggiate che faremo, i regali che strapperemo al nonno: vedrai!...
Invece la febbre non cessava. Adesso, per ordine del dottore, una volta il giorno avvolgevano quel povero corpo stremato dal male in un lenzuolo imbevuto d'acqua e aceto: la malatina rabbrividiva, batteva i denti, tremava, cogli occhi socchiusi che parevano rovesciarsi, ma senza lamenti, senza impazienze, pregando soltanto il nonno di non insistere a volerle dare del cibo.
Il babbo non sapeva ancora nulla; fu lei stessa che gli scrisse. Allora cominciarono a piovere dei telegrammi, due il giorno, ai quali bisognava rispondere subito. Ma perchè non veniva lui stesso? Che cosa poteva trattenere un padre dall'accorrere al letto d'una figliuola in quello stato? Ed ella l'accusava sordamente, comprendeva che il nonno non parlasse mai di lui.
Pareva che quella febbre non dovesse cedere mai; invece un giorno cominciò a declinare, e a poco a poco scomparve.
— Hai visto?... Hai visto?... — esclamava, carezzando il visino pallido della sorellina. — Te lo dicevo io che saresti guarita?... E quando questa testina e quegli occhioni dicevano di no, di no, come se le febbri durassero eterne?...
Una convalescenza interminabile, intanto. Passò un mese prima che Laura potesse fare un giro per le stanze, un altro prima che potesse uscire in carrozza chiusa.
Come veniva l'inverno, per distrarla il nonno ebbe un'idea: invitò i suoi amici a passare la sera in casa sua. Venivano i Giuntini, i Ferla, tanti altri, e conducevano tutti i figli; si giuocava alla tombola, al sette e mezzo, al lansquenet. Luigi Accardi non mancava mai. Una sera che le si era seduto accanto, ella sentì afferrarsi la mano sotto il tavolo. Le parve d'udire un forte zufolìo, sentì freddo, poi una vampa che le saliva alla fronte. La notte non potè dormire: un'angoscia deliziosa le invadeva il cuore; ella si diceva raggomitolandosi sotto le coltri: «Mi ama! Mi ama!... Com'è bello!... Quanto bene gli voglio!...» e sorrideva pensando all'audacia con cui egli aveva sfidato un pericolo.
Adesso, egli armeggiava sempre per sederle vicino,