A una ricaduta di Laura, il nonno decise finalmente di condurre le nipotine a Messina, per consultare un dottore, per far divagare la malatuccia. Ricominciò la festa di Palermo: passeggiate, visite, teatri, inviti: tutto il giorno in moto, lo studio messo da parte, i libri lasciati a casa, Miss sola imbronciata. Com'era più bello il teatro Vittorio Emanuele del Bellini di Palermo: grande, sfolgorante, pieno di signore elegantissime, con una compagnia di prim'ordine che rappresentava il Roberto Devereux e faceva accorrere gente dal fondo della provincia. In platea c'erano tanti giovanotti eleganti e un ufficiale biondo, con un'ombra di baffettini, che guardava sempre dietro il cannocchiale. Lo volgeva anche verso di lei? Ogni sera si sentiva guardata; i suoi sguardi correvano, suo malgrado, laggiù, e una fiamma le bruciava il viso.
Se ne ricordava ancora a casa, di quell'ufficiale, malgrado rivedesse Luigi Accardi; e così pensava a tutti e due, e a Niccolino Francia, anche. Come Lauretta s'era divertita molto anche lei, il nonno consentì di condurle altre volte a Messina; quando tornava dal Senato, esse gli andavano incontro fino alla città; e a furia di fare la via, la sapevano adesso a memoria: gli Archi, Spadafora, Baùso e Divieto vicini l'uno all'altro, e poi la salita di Gesso — Ibbisu — il paesetto arrampicato sulla montagna, e poi il tratto finale, più erto, con la nebbia che avvolgeva spesso ogni cosa, coi cavalli che ansavano e procedevano al passo, faticosamente; e poi il colpo di frusta della discesa allegra, rapida, con la città e lo stretto spiegati come una carta geografica, in fondo! Ella viveva dell'attesa e del ricordo di quelle scorse; calcolava, volta per volta, quanti giorni mancavano alla partenza, e numerava altrettanti ciottolini, raccogliendoli sulla spiaggia di San Papino. Ogni giorno che passava, ne buttava uno dalla finestra e faceva il conto dei rimanenti.
Quanti spartiti sapeva, adesso! A Milazzo, per sopportare più pazientemente la noia di quel soggiorno, li suonava a pianoforte, tutti, dalla prima all'ultima nota, imparando con la musica le parole. Intanto che restava ferma e composta dinanzi allo strumento vibrante, nella sua testa sfilavano tutte le eroine di quelle storie d'amore: Gemma di Vergy, Maria di Rohan, la Favorita, la Traviata, che, vestite di abiti sontuosi, tempestati di gioie, passavan superbe e maestose tra gli omaggi dei cavalieri e gl'inchini delle dame, o pazze d'amore, coi capelli disciolti sulle spalle, pallide e smarrite, in bianche vesti, piangevano e vaneggiavano. Gli uomini spasimavano per esse, e com'era bello quando sguainavano le spade lampeggianti, sfidandosi a morte!...
Ella si alzava, fremente d'emozione, e se n'andava alla finestra, guardando il mare e le montagne di Gesso, violacee nella lontananza. Certi giorni si metteva a cantare i motivi principali di quelle opere, intanto che lavorava o passeggiava sulla terrazza, e una volta cominciato, non smetteva più: le romanze succedevano alle romanze, i duetti ai duetti, i cori ai cori; e poi, da capo, ripeteva senza fine i pezzi più belli, intonava a voce più forte i finali maestosi, intercalava alla musica seria le canzonette napoletane, i motivi che fischiettavano i monelli, la Giulia gentil, l'Una volta un capitano, instancabile, con la gola sempre fresca, come un merlo sulla rama, finchè Miss, o il nonno, o la sorella non gridavano:
— Assez!... Basta, Teresa!... per carità!....
Smetteva un poco, poi ricominciava, sottovoce. Voleva esser trattata come una signorina, ma era ancora una monella. La bambola aveva sempre tutte le sue cure. E la sera, con la paura antica, voleva che Stefana, accanto al capezzale, le raccontasse le fiabe.
Il repertorio ne era esaurito, talchè la donna ripeteva sempre le stesse: La sorella del Conte, Rossa come fuoco, Il Re Cavallo-morto, I sette ladri, L'infante Margherita, Dammi il velo, La Mamma Draga, La Bella dei sette cedri, La Reginetta schifiltosa. Adesso le sapeva a memoria anche lei e le comprendeva meglio. Le fanciulle leggiadre, fossero nate sul trono o nelle capanne, facevano degli uomini quel che volevano; e invano essi cercavano sottrarsi al loro potere. L'indovino, in cambio d'uno scialletto che Povera Bella gli dava, le prediceva che sarebbe stata moglie del figliuolo del re; e il figliuolo del re, udito quel discorso dal balcone, si metteva a beffeggiarla:
— Lo scialletto lo perdesti!
Ma il figlio del re non l'avesti!
Povera Bella rispondeva: «Che m'importa?»
— Quello di suso e quello di giuso,
Il figlio del re ha da esser mio sposo.
Spero in Dio,
Il figlio del re ha da esser mio.
Spero in Dio e in tutti i Santi
Il figlio del re m'ha da essere accanto.
Il Reuzzo rideva, ma nel cuore gli restava una piccola piaga; e tutto quello che egli faceva era inutile: Povera Bella restava per sempre a suo canto!
Rosina, nel Vaso di basilico, era una povera ragazza senza mamma, che se n'andava tutti i giorni a scuola; il figliuolo del re, dalla terrazza del palazzo reale, cominciava a canzonarla, a giuocarle dei tiri. Lei, che non si faceva mettere in mezzo da nessuno, glie ne ordiva di più birboni; ma il giorno ch'ei non potè più vederla, fu per morire e non guarì se non quando l'ottenne in moglie. Rosina, accorta, fece impastare una bambola di zucchero e miele che era tutta il suo ritratto, e la sera degli sponsali, mandato via nell'altra camera il Reuzzo col pretesto che aveva vergogna di spogliarsi dinanzi a lui, mise la bambola nel letto nuziale, nascondendosi poi lì sotto. Il Reuzzo, tornato, cominciò a rinfacciare alla bambola tutti i torti che Rosina gli aveva fatti, e chiedeva, con la sciabola in mano: «Ti penti di questo? Ti penti di quest'altro?...» E la bambola a far segno di no col capo, che Rosina tirava per mezzo di una funicella. Allora, giù un terribile fendente. Ma, pentito, il Reuzzo si portava la lama alle labbra, ed esclamava, con accento di dolore disperato; «Ah, com'era dolce il sangue di mia moglie!...» Rosina usciva a un tratto dai suo nascondiglio, e così restavano felici e contenti!
Però, alcune di quelle fiabe Stefana non voleva più narrarle; ella se le faceva ripetere dalla moglie del fattore del Capo: quella del marito geloso che, partendo dal suo paese, murava la moglie in casa, e del Cavaliere che si faceva pappagallo per ottenerla; quella della Sorella del Conte che, chiusa dal fratello per gelosia, si metteva a forare il muro della prigione ed entrava così nella camera del Reuzzo, dove ardeva una lampada preziosa.
— Lampada d'oro, lampada d'argento,
Che fa il tuo Reuzzo, dorme o veglia?
La lampada rispondeva:
— Entrate, signora, entrate sicura:
Il Reuzzo dorme — non abbiate paura.
La contessinella entrava e andava a coricarsi a fianco del Reuzzo. Egli si svegliava, l'abbracciava, la baciava, e le diceva:
— Signora, donde siete? dove state?
Di quale Stato siete?
— Reuzzo, cosa dite? che chiedete?
Tacetevi e godete...
Ma non erano soltanto gli uomini che impazzivano per le fanciulle; le stesse Belle quanto penavano pei loro amanti! Nel Re d'Amore, nel Sorcetto con la coda puzzolente, le ragazze andavano in cerca degli innamorati; e quante fatiche aveva sopportate Marvizia per trovare l'uccello verde, che era un principe reale! Vi erano delle reginette così piene di coraggio nello sfidare le Mamme Draghe, nel correre sperdute per il mondo, e così accorte nel cavarsi d'impiccio, così ardite e così buone, che ella restava sbalordita d'ammirazione.
E