Il primo annuncio che si ebbe di tale scelta fu precisamente nel contegno dei due vecchi. Parve che avessero scambiate le teste come per incanto. Rultini, che da tanto tempo era triste e brusco, divenne allegro e amichevole. Sembrava che si trovasse in una festa continua; stringeva con calore le mani che gli venivano offerte per congratulazione e s’inquietava quando vedeva faccie tristi. Fermò un giorno Alfonso col quale fino allora non aveva scambiato che poche parole, e gli chiese la ragione della sua tristezza. Trasalendo Alfonso voleva pur dire qualche cosa in risposta, ma Rultini, nella sua gioia inquieta, non ebbe il tempo di attendere. Se ne andò gridandogli:
— Non inquietarsi mai; questa è la massima più importante per essere felici. — In fondo, della tristezza altrui poco gl’importava, ma lo sorprendeva: — Come? C’era ancora chi si lagnasse?
Eppure, anche all’infuori di quella di Alfonso, alla banca esistevano altre tristezze. Soltanto cinque giorni dopo Ciappi venne all’ufficio; per quei cinque giorni s’era dichiarato ammalato. Il primo giorno rimase soltanto per un’oretta in ufficio e ne venne scacciato dagli sguardi indiscreti dei colleghi, i quali sapevano che a lui stesso la disfatta doveva aver apportato sorpresa e volevano vedere come la sopportasse. Non senza dignità, e dopo alcuni giorni tutti dovettero riconoscerlo. Quando si mise a lavorare, apparve non troppo triste, lavoratore esatto come sempre. Per affari d’ufficio parlò anche con Rultini, mentre costui prima del suo successo aveva evitato di venir a contatto con lui anche per tali affari. Per completare la sua felicità, Rultini non desiderava che di fare la pace col suo vecchio amico e gli gettava degli sguardi amorevoli, ma Ciappi faceva il sordo e lo trattava con una freddezza glaciale. Anche quando era costretto a parlargli per affari d’ufficio, non lo guardava in faccia.
— Ah! così? Adesso che mi ha ammazzato vuole la mia amicizia?
Rultini confessò a Marlucci ch’era pentito di aver questionato con Ciappi, ma che però in lui l’ira era stata giustificabile, perché se Ciappi fosse stato il preferito sarebbe stata un’ingiustizia palese. Ciappi non aveva alcun diritto di serbargli rancore.
— Che mi ceda il suo posto e la sua paga e naturalmente anche la sua scienza acciocché io mi possa sentire idoneo al suo posto e felice, ed io sono dispostissimo a lasciarlo andare in vece mia a Venezia.
Anche queste espressioni vennero riferite a Ciappi.
— Dargli la mia scienza e la mia pratica? Se non fosse stato sempre tale un poltrone se le sarebbe conquistate da sé. Vi garantisco io che, per quanto poco si richieda da lui a quel posto, sarà sempre troppo, e, se Maller non sarà pronto a porvi riparo, un bel giorno apprenderà che la sua filiale, contrariamente al suo volere, avrà fatto un atto indipendente; sarà fallita per proprio conto.
Maller riseppe di quest’odio e lo credette anche maggiore di quanto realmente fosse. Per prudenza fece partire Rultini una settimana prima dell’epoca stabilita.
Rultini andò alla stazione accompagnato trionfalmente dagl’impiegati più anziani, compresi Marlucci e Sanneo. Marlucci disse poi ch’egli perdeva molto in Rultini, il più vecchio amico che avesse alla banca:
— Non capisco come Ciappi abbia potuto comportarsi in quel modo.
Alfonso, dinanzi al quale Marlucci lasciò cadere questa frase, pensò che il toscano aveva la buona abitudine di essere sempre del parere del più fortunato.
Lottatore accanito quel Giacomo, il ragazzetto dalle guancie rosee per il quale Alfonso aveva sentito tanto affetto. Il giovanetto era cresciuto, dimagrito, aveva perduto del tutto i colori che aveva portato dal suo Friuli e il suo volto, allungandosi, aveva preso la forma di certe ossa regolari ma grosse e solide ch’egli s’era fabbricate.
I fanti della banca venivano considerati quali impiegati ed erano attribuiti ai singoli dipartimenti, alla cassa, alla liquidazione o alla corrispondenza; i loro capi immediati erano i capi ufficio relativi. Solo nel processo di tempo, incominciando da Maller stesso, i più alti impiegati si servirono di un fante e lo resero in parte loro domestico, pagandolo separatamente. Ciò completava la giornata del fante occupata solo in parte dai doveri d’ufficio.
Cellani aveva scelto il vecchio Antonio ex furiere, e, per quanto fosse servito trascuratamente, per parecchi anni se ne era accontentato. Fu certo per bontà che un giorno lo consigliò di farsi aiutare da Giacomo; Antonio accettò con riconoscenza e commise il fallo di abusare dell’aiuto offertogli. Da allora fu Giacomo che pulì la stanza di Cellani, riponeva lui a posto nella piccola biblioteca i libri ch’erano stati consultati durante il giorno, e spesso Antonio lasciava a Giacomo anche la cura di portare a Cellani il tè che il procuratore prendeva due volte al giorno. Il giovinetto comprese ben presto l’utile ch’egli poteva trarre da tale stato di cose e fu zelantissimo al servizio di Cellani, trascurando, quando non poteva fare altrimenti, quello della banca.
Ad onta della sua bontà, a capo d’anno Cellani non si rammentò di Antonio che non vedeva quasi mai e diede una rimunerazione a Giacomo. Per Antonio fu una sorpresa perché non aveva calcolato quali dovessero essere le naturali conseguenze della sua inerzia. Non azzardò di lagnarsi, ma volle mutare sistema in avvenire, e proibì a Giacomo di lavorare più per Cellani. Si mise poi a tutt’uomo a sopportare da solo le fatiche del suo impiego per averne tutti i vantaggi.
Ma era troppo tardi. Subito, il primo giorno, Cellani si avvide del mutamento perché abituato ad essere servito meglio. Chiamò Giacomo per sgridarlo di aver lasciato sucido il suo tavolo. Il giovinetto venne e rapidamente disse una frase rimuginata dacché Antonio gli aveva proibito di mettere più piede in stanza di Celani; egli aveva calcolato tutte le conseguenze e nulla lo sorprendeva.
— Sa! non sono stato io quest’oggi a fare la stanza, ma l’ha fatta Antonio perché l’ha voluto. Io avevo già principato e mi ha mandato via.
Si era al due di gennaio e al primo erano state distribuite le mancie, così che a Cellani fu facile mettere in relazione con esse il nuovo zelo di Antonio. Comprese e ne fu commosso. Diede del denaro ad Antonio, ma non seppe essere buono del tutto e lo pregò di lasciar fare la sua stanza a Giacomo. La sua comodità gli era divenuta troppo cara.
Fu per Antonio una sventura perché con questo licenziamento diminuiva il suo emolumento senza perciò diminuire sensibilmente il suo lavoro. Gl’impiegati della cassa, alla quale era addetto, per riguardo a Cellani lo avevano fatto lavorare poco, mentre ora venne di nuovo costretto a correre per la città, a riscuotere e a pagare. Di più, sapendolo unicamente al servizio della cassa, quando agli altri uffici occorreva un maggior numero di fanti, si chiese più di spesso al cassiere il permesso di servirsi di Antonio.
Raccontò egli stesso la sua sventura ad Alfonso. Sanneo faceva trasportare in corrispondenza il deposito di carta che fino allora era stato conservato nelle stanze della contabilità e del trasporto vennero incaricati Antonio, Santo e Giacomo. Ben presto questi due ultimi se ne andarono perché sul corridoio aveva suonato più volte il campanello elettrico. Non ritornarono più e Antonio sbuffò per due ore a trascinare pacchi di carta compressa che pesavano, diceva, come piombo.
— Ella non è più al servizio del signor Cellani? — gli chiese Alfonso.
— Come, non lo sapeva? — chiese Antonio stupefatto che non tutti sapessero della sua disgrazia. — Ho rovesciato una tazza di tè e il signor Cellani non me la perdonò più! — Non confessava che aveva perduto il posto per la sua lentezza al lavoro. Poi però non volle risparmiare a Giacomo i rimproveri che in realtà meritava: — Se non ci fosse stato quel maledetto ragazzo che si cacciò innanzi e che mi calunniò presso il signor Cellani, a quest’ora sarei ancora al mio posto.
Giacomo raccontò ad Alfonso con esattezza e sincerità come tutta la faccenda fosse proceduta. Alfonso lo aveva preso per il mento e lo guardava serio negli occhi ancora infantili.
— Ma tu hai portato via il posto ad Antonio?
— Io? — gridò Giacomo con una sghignazzata di persona soddisfatta, — quel poltrone non faceva nulla. È orbo e non sa stare sulle gambe; non poteva