Era evidente che rinunziava a riconoscerlo; aveva perduto la memoria e non la cortesia.
— Bene, grazie, e lei? — chiese Alfonso commosso.
— Bene... bene.
Poi masticò delle parole che non si comprendevano accennando al giornale; voleva raccontare quello che aveva letto. Quantunque i due giovani non facessero motto, Fumigi comprese che non lo si capiva. Ripeté gridando una frase, poi l’abbreviò per poter dare maggior cura alla pronunzia. Infine rinunziò al suo pensiero e si accontentò di dire un nome scandendone le sillabe. Era il nome di un uomo politico che mesi prima aveva fatto parlare molto di sé. Ripiombò nella sua lettura dopo di aver esitato un istante e guardato i suoi interlocutori con quello sguardo di domanda che ha il cane per il padrone che gli proibisca di toccare un pezzo di carne.
— Ed è sempre così, mai violento? — chiese Alfonso a bassa voce.
— Può parlare ad alta voce, — gli rispose Prarchi, e lo fece avvicinare.
Leggendo, Fumigi declamava fermandosi con compiacenza a certe parole dal suono più forte. Poi parve adirarsi, gridò, masticando le sillabe e ripetendole.
Alfonso capitò fra la luce e il giornale e l’ammalato alzò il capo dopo un istante di sorpresa al vedere quell’ombra proiettarsi sulla carta; quando l’ombra scomparve si acquietò di nuovo al suo lavoro.
Era entrato qualcuno nella stanza e prima di udirne la voce Alfonso sentì ch’era Macario. Nell’imbarazzo volle ritardare tale incontro e si mise a guardare Fumigi con attenzione intensa fingendo di non essersi accorto di Macario neppure quando lo udì salutare Prarchi.
Si avvicinavano a Fumigi e quindi a lui.
— Come va? — chiese Macario battendo la spalla all’ebete.
Era tanto disinvolto che realmente non doveva aver veduto Alfonso. Quando lo vide non si commosse di più, rimase impassibile; gli fece un saluto indifferente come se non si fossero divisi che da pochi giorni soltanto. Alfonso aveva fatto bene a non dire a Prarchi che dopo il suo ritorno egli vedeva Macario per la prima volta, perché Prarchi altrimenti si sarebbe sorpreso del contegno di Macario.
— Le mie congratulazioni. — mormorò Alfonso porgendogli la mano che da Macario venne stretta con un inchino cortese ma di certo non amichevole.
Poi non si dissero altro.
Prarchi aveva dato a Fumigi della carta e una matita, e, quantunque non l’avesse chiesta, Fumigi non appena ricevutala si mise a scrivere con l’accuratezza con cui si dipinge.
— Vieni? — chiese Macario a Prarchi. — Avrei da dirti qualche cosa.
— E lei? — chiese Prarchi ad Alfonso non invitandolo espressamente perché Macario con sufficiente chiarezza aveva espresso il desiderio di restare a quattr’occhi con lui.
— Ho da andare a fare una visita qui accanto, — e uscì dopo aver stretto la mano a Prarchi ma non a Macario quantunque gli parve che costui gliel’avesse tesa con movimento macchinale.
Era irritato. Dopo averlo subito, il contegno di Macario gli parve avviliente e ingiusto perché ad ogni modo avrebbe dovuto essere differente; più freddo ancora se Annetta tutto gli avesse raccontato, altrimenti amichevole come di solito. Egli s’era atteso a collere violente oppure a indifferenza glaciale, ma mai a disprezzo. Macario lo trattava circa circa come Annetta da principio, quale il piccolo impiegatuccio della banca Maller e C. e Alfonso s’era preparato per rassegnarsi a persecuzioni ma non a disprezzi. Poteva rassegnarsi a venir considerato quale un nemico pericoloso, quale un individuo malvagio e temibile, ma non quale una persona che si può ignorare.
Dovette ben presto ridere di sé vedendo evidente il contrasto fra’ suoi propositi e il suo modo di sentire. Gli premeva dunque ancora tanto dell’amicizia di Macario da addolorarsi a quel modo per averla perduta? Avrebbe dovuto gioire di quella freddezza calma. Era da supporsi che Annetta avesse raccontato al suo promesso sposo una parte dell’avvenuto, precisamente tanto da poter pigliarne pretesto ad allontanare Alfonso per sempre da casa sua, e la freddezza di Macario non era altro che l’affettazione signorile verso inferiori, accresciuta dall’antipatia portata ragionevolmente a persona che, quantunque con esito negativo, aveva tentato di conquistare l’amore di Annetta e gli aveva forse fatto passare qualche brutto quarto d’ora di gelosia. Anche per altra ragione egli avrebbe dovuto gioire di essere stato maltrattato da Macario. Avrebbe dovuto avere degli scrupoli di coscienza per la parte che Annetta stava per fare col suo aiuto a Macario e diminuiva la sua colpa il fatto che non era più un amico ma un nemico che si tradiva.
Ad onta di tutti i ragionamenti il suo sentimento rimase il medesimo. Egli non sapeva essere grato a Macario che tanto presto, senza motivo, così doveva supporre, gli toglieva la sua amicizia.
Quel giorno si sentì meno felice del solito alla banca; dovette lottare per rimanere quieto al suo lavoro che gli ripugnava. Il desiderio di poter vendicarsi di Macario gli faceva fare dei sogni strani. Immaginava lo stato in cui si sarebbe trovato se l’idillio incominciato con Annetta avesse avuto altro esito. Certo in quel caso Macario avrebbe dovuto trattarlo da pari a pari, e per quell’istante gli parve una felicità inapprezzabile.
R
XIX
Fu una serata agitatissima. Arrivato a casa, Alfonso non si accorse subito che ai Lanucci doveva essere accaduto qualche cosa di grave; era troppo preoccupato per proprio conto. Nel tinello non c’erano né Lucia, né Gustavo e la signora Lanucci sedeva perduta in riflessioni e gli occhi rossi dal pianto, distante dal tavolo, su una sedia che non si capiva perché fosse stata messa a quel posto. Unico al suo posto solito era il vecchio Lanucci con le gambe fasciate da coperte.
Dovette loro rivolgere la sua attenzione, visto che non parlavano e non rispondevano alle sue domande, e impazientito chiese:
— Si potrebbe sapere che cosa vi è accaduto?
Gli costava un grande sforzo distrarsi dai propri pensieri.
Parve che la Lanucci non volesse rispondere, ma quando vi si risolse in poche parole disse molto:
— Oh! piccolezze! Finora si soffriva in casa nostra soltanto di miseria, ora vi si aggiunge anche il disonore. — Il vecchio protestò imponendole di tacere, ma ella gridò ch’era cosa che prima o poi tutti avrebbero saputo e che tanto meno si poteva pensare di celarlo ad Alfonso. Crudamente aggiunse: — Divento nonna!
Alfonso finse di venir grandemente sorpreso da tale notizia che esplicitamente non gli era stata data da nessuno.
Qualche sospetto ne aveva avuto per le parole dettegli da Gustavo la sera del suo arrivo, ma costui le aveva smentite ed egli non s’era fermato a esaminare se Gustavo fosse più degno di fiducia dicendo quelle parole o smentendole.
Gli venne raccontata l’avventura della giornata, quella che aveva fatto che Lucia si tradisse. Sembrava che appena quel giorno ella si fosse accertata del suo stato perché nella sua disperazione era corsa da Gralli a raccontarglielo e a chiedergli aiuto. Gralli l’aveva respinta dicendole ch’egli non poteva addossarsi quel peso e che gli doleva ma che doveva lasciarla a sé stessa. Le offriva un soccorso mensile a patto però che gli si concedesse il libero accesso in casa Lanucci. La disgraziata aveva perduto la testa ed era corsa dalla madre a raccontarle tutto.
— Che fosse morta! Il dolore sarebbe stato meno grande, glielo assicuro.
La Lanucci esponendo il fatto con vivacità s’era sfogata e aveva acquistato la calma sufficiente per tentare di salvare a forza di frasi l’onore della famiglia compromesso per quel fatto agli occhi di Alfonso.
Lucia dalla sua stanza aveva udito queste ultime parole ch’erano state gridate e s’era messa a piangere dirottamente invocando sua madre, chiedendole perdono.
— È troppo tardi per piangere, ci dovevi pensare prima, — gridò la Lanucci senza compassione.
La