Infatti Sanneo fu molto cortese con lui. Dovette fargli qualche osservazione sul modo onde era concepita una o l’altra di quelle lettere, ma ragionava con dolcezza e non gridava, interpolando parole di lode alle poche di biasimo. Per qualche istante Alfonso ne fu veramente felice; erano le prime parole buone che udiva alla banca dopo il suo ritorno.
Ma giunto all’aperto, là ove di solito faceva quel piccolo sforzo di volontà per dirigersi verso la biblioteca civica, sentì con terribile evidenza la disgrazia della sua posizione. Quale importanza poteva avere la simpatia di Sanneo in confronto all’odio immenso che doveva essersi scatenato contro di lui più in alto? Non bastava lavorare molto e con intelligenza per diminuire quell’odio. Disse a se stesso che l’unica via per sottrarsene era dimettersi dal suo posto, ma non sentì così. Era quell’odio e quel disprezzo che gli dispiacevano, non il timore delle persecuzioni che gliene sarebbero derivate. Un’altra volta ancora non fu sincero con se stesso e non giunse ad essere perfettamente conscio della vera ragione per cui non abbandonava l’impiego. Non si disse che l’unica sua speranza era di poter attenuare quell’odio e farsi stimare da chi lo disprezzava, ma voleva convincersi che rimaneva da Maller perché ancora non sapeva se quell’odio si sarebbe manifestato e di più se realmente sussistesse. Forse una sua tacita rinunzia, come voleva farla, poteva bastare per accontentare tutti.
Stava per entrare in casa quando venne chiamato. Era Francesca che lo aveva atteso lungamente in mezzo alla via.
— È da mezz’ora che vi attendo. — Lo aveva chiamato senza muoversi ed ora appena andava a lui col suo passo deciso, senza fretta. — Ho l’incarico da Annetta di dirvi che procuriate di dimenticarla; ella farà altrettanto.
La brevità dell’annunzio era stata certamente premeditata per dargli maggior sorpresa e dolore.
Egli però era preparato a peggio e accolse quasi con gioia chi finalmente veniva a dargli delle spiegazioni.
— Sono rassegnato! — rispose e non trovò altro da dire. Esitò tanto che Francesca si accinse ad allontanarsi ma egli la fermò; era l’unica persona dalla quale potesse sperare di avere esatte notizie sui sentimenti che in casa Maller si nutrivano per lui e, perduta quell’occasione, sapeva che non tanto facilmente ne avrebbe trovata altra di parlare con lei.
— Ma perché, perché? — chiese con voce strozzata. Non era quella la domanda ch’egli avrebbe voluto fare; se non gli fosse sembrato sconveniente, avrebbe chiesto senz’altro che cosa allora si chiedesse da lui.
— Dovete conoscerne la ragione; ve l’ho spiegata per lungo e per largo prima che il fatto avvenisse. — Anche la sua voce aveva tremato ma d’ira. — La vostra partenza somigliava ad una fuga da donna che volesse accalappiarvi, e Annetta ha avuto ragione.
— Ma è morta mia madre! — protestò Alfonso. — Non basta questo a spiegare la mia assenza?
Francesca rimase fredda.
— Voi non sapevate ch’era ammalata quando partiste o me lo avreste detto. Fuggivate le noie della vostra fortuna, o almeno così mi sono spiegata io la vostra fuga.
La figurina sempre composta, il volto pallido sempre uguale, ella andava sempre più adirandosi senza gestire affatto ed egli sentiva l’ira nel suono della voce che già conosceva. Quanto poi gli disse erano cose che soltanto l’ira poteva averla spinta a confessare così esplicitamente.
Ella abbandonava il giuoco per perduto. Premise che la sua principale sventura era stata d’imbattersi in gente della specie dei Maller, ma poi era stato Alfonso a decidere della sua sorte.
— A quest’ora sarei moglie di Maller, se non mi fosse capitato fra’ piedi l’imprevisto, voi, un uomo simile al quale spero ne esistano pochi a questo mondo, un imbecille!
Egli già sapeva che Francesca era l’amante di Maller e le rivelazioni di Francesca non gli apportavano che la sorpresa di udirle dalla sua bocca, ma bastò per fargli dimenticare di trarre da costei le notizie che aveva tanto desiderate. Stette a udirla estatico, meravigliato dinanzi a quella donna energica che nella sventura non sentiva che l’ira di non esser riuscita meglio nei suoi scopi.
Ella parlò ancora. Gli raccontò che pochi giorni dopo la sua partenza Annetta aveva riacquistato la calma e che probabilmente s’era rimessa ad influire sul padre contro Francesca. Ella se ne era accorta al mutamento nel contegno di Maller e aveva allora scritto ad Alfonso quella lettera ch’egli subito aveva compreso essere una domanda di aiuto.
— La maggiore consolazione nella mia sventura si è di saper sventurato voi pure.
Lo lasciò con queste parole ed egli non cercò di trattenerla. Sarebbe stato inutile chiederle di qualunque altra cosa che non fosse stata quella che la preoccupava. Come mai avrebbe ella potuto avere il tempo di spiegargli quali intenzioni avessero i Maller in suo riguardo e quale contegno da lui esigessero? Non era venuta con l’intenzione di apportargli conforto o calma; con voluttà s’era incaricata di un’ambasciata di Annetta credendo di addolorarlo e vi aveva aggiunto di suo quanto aveva creduto dovesse rendergliela più dolorosa.
Eppure questo colloquio gli diede qualche tranquillità. Di tutte le parole di Francesca gli rimaneva soltanto l’impressione delle prime, l’ambasciata di Annetta. Ella mandava a pregarlo di dimenticarla! Dunque voleva che tacesse e nient’altro. Era già quanto bastava per adottare il contegno che da bella prima gli era sembrato il più naturale e quello che poteva in qualche parte rendergli più facile la sua posizione. Non si sarebbe curato né di Annetta né di Macario; scomparivano almeno le inquietudini dategli dalle parole di Miceni.
Ritornò in città; provava intenso il desiderio di riflettere ancora. Aveva il sentimento disaggradevole di non avere ancora compreso perfettamente la situazione e gli sembrava che ogni nuova parola che udiva ne mutasse perfettamente la fisonomia.
Nel suo impieguccio egli si trovava bene, — pensava a quella giornata passata tanto aggradevolmente al lavoro — e vi sarebbe rimasto. Se Annetta gli chiedeva il silenzio, certamente Maller stesso non avrebbe voluto altro e si sarebbe guardato dal fare alcun passo che ai terzi potesse rivelare le cause dell’odio che gli portava.
Sarebbe vissuto tranquillo in mezzo a quell’odio. Avrebbe fatto alla banca il suo dovere, ma non dal lavoro avrebbe atteso che quell’odio diminuisse, bensì dal proprio contegno. Si proponeva di contenersi in modo che si terminasse col credere ch’egli tutto avesse dimenticato. Era più di quanto gli era stato domandato.
Amata non l’aveva giammai; ora la odiava per le inquietudini di cui ella era causa. Se non chiedevano altro da lui che di dimenticarla, li avrebbe accontentati.
Trovò per la via Gustavo che lo salutò.
— Finalmente! Non speravo più di rivederti. Ci toccarono delle belle durante la tua assenza. Mamma ti ha già raccontato? E poi hai visto papà?
Alfonso lo guardò attentamente per vedere quale impressione avessero prodotto in lui tante sventure. Aveva l’aspetto solito, una sigaretta in bocca, sucido, ma il cappello con civetteria sull’orecchio destro. Soltanto chiedendogli se la madre gli avesse già raccontato dell’abbandono di Gralli ebbe negli occhi un lampo d’ira.
Nel tinello dei Lanucci c’era una tristezza enorme. La tovaglia giallognola, le poche e miserabili stoviglie e tutti quei volti pallidi anemici intorno al tavolo, ne facevano la degna abitazione della miseria sconsolata.
— Maledizione, — mormorò Gustavo, — con tanti musoni anche quel poco che si mangia non si digerisce. — Poi rivoltosi a Alfonso: — Io sarei come al solito, ma al vedere costoro...
Alfonso dal canto suo volle secondarlo nel tentativo di scuotere le due donne dalla loro tristezza inerte.
— Infatti, — disse, — neppur io non capisco perché siate