Senza le ire che gli avevano apportato le ricerche inutili, la sua vita divenne anche più tranquilla. Durante la giornata parlava poco e sempre con le solite persone. Sulla via si sentiva a disagio e non la passava che correndo per portarsi all’ufficio o a casa.
Si trovava, credeva, molto vicino allo stato ideale sognato nelle sue letture, stato di rinunzia e di quiete. Non aveva più neppure l’agitazione che gli dava lo sforzo di dover rifiutare o rinunziare. Non gli veniva più offerto nulla; con la sua ultima rinunzia egli s’era salvato, per sempre, credeva, da ogni bassezza a cui avrebbe potuto trascinarlo il desiderio di godere.
Non desiderava di essere altrimenti. All’infuori dei timori per l’avvenire e del disgusto per l’odio di cui si sapeva l’oggetto, egli era felice, equilibrato come un vecchio. Certamente, egli ne era consapevole, la sua pace era il risultato delle strane vicende degli ultimi mesi le quali avevano gettato su lui come una cappa di piombo che gl’impediva ogni divagazione; tutti i suoi pensieri erano a quelle vicende o per ammirare la grandezza del sagrificio ch’egli aveva fatto o per studiare come sottrarsi ai pericoli ch’egli pensava lo minacciassero. Era sempre più quieto che negli anni di malcontento passati prima alla banca, inquieto e ambizioso vivendo alla cieca secondo le sensazioni del momento. Ora aveva dimenticato i sogni di grandezza e di ricchezza e poteva sognare per ore senza che fra’ suoi fantasmi apparisse una sola faccia di donna.
Sognava che la sua pace ancora aumentasse. Sognava di rimanere come era e di dimenticare del tutto Annetta e di venirne dimenticato da lei e dagli altri. Sognava anche di diminuire l’odio di Maller e di vedersi accolto da lui un’altra volta come quella sera nella sua stanza ove lo aveva chiamato per incoraggiarlo con tanta dolcezza. E Macario? Sapeva anche costui quante ragioni avesse a odiarlo?
Non sognava miglioramento della sua posizione alla banca. La rendita ch’egli poteva ricavare dal suo piccolo capitale unitamente al suo emolumento doveva bastare e dai suoi principali non attendeva altro che di esser lasciato tranquillo al suo posto.
Intorno a lui, alla banca stessa, si lottava con un accanimento che gli faceva sentire meglio l’elevatezza della sua posizione, lontana da quella lotta tanto accanita quanto meschina. Erano lotte dal basso tra’ fanti per i posti presso i direttori fin su a quella che giusto allora si combatteva per il posto di fondatore e direttore della filiale che la casa Maller stava per stabilire a Venezia.
Per il posto a Venezia lottavano due vecchi: il dottor Ciappi e il liquidatore Rultini, ambidue persone con le quali fino allora Alfonso poco o nulla aveva avuto da fare.
Il dottor Ciappi era da pochi anni impiegato della banca Maller. Aveva bensì fatto regolarmente i suoi studî, ma essendo di famiglia povera e non avendo protezioni non gli era riuscito di procurarsi una clientela bastante per viverne, e dopo lunghi anni d’inutili tentativi aveva accettato il posto che gli era stato offerto da Maller, di dirigente dell’ufficio contenzioso e di avvocato della banca. Era un posto che non gli dava l’utile che poteva sperare da quello di dirigente della casa di Venezia.
Anche Rultini era entrato da Maller già vecchio. Era stato messo al posto di liquidatore più per deferenza ai suoi capelli bianchi che per la sua abilità, ma quello ch’era peggio, e tutti lo sapevano, egli stesso si sentiva insufficiente al suo posto perché poco rapido nel lavoro e mal pratico dei conteggi di borsa. Era la ragione principale per cui concorreva al posto di dirigente a Venezia, perché, la nuova filiale dovendo dipendere in tutto dalla casa madre, quel posto era bensì di fiducia ma non di difficoltà.
I quattro vecchi della banca, Rultini, Ciappi, Jassy e Marlucci, erano stati grandi amici, riuniti dall’età circa eguale essendo spostati fra’ giovanetti che invadevano la banca, ma specialmente nota e ammirata era stata l’amicizia fra Rultini e Ciappi. Rultini, linguista di prima forza, aiutava Ciappi quando l’ufficio contenzioso aveva da redigere delle lettere che chiedevano maggior purezza o proprietà di lingua, e in giornate di liquidazione Ciappi era spesso accanto a Rultini per aiutarlo ad attraversare le terribili complicazioni di quella giornata. Ma al funerale di Jassy, il più vecchio dei quattro, si osservò per la prima volta che le due teste bianche si tenevano lontane. Il dottore (per antonomasia Ciappi veniva chiamato così) guardava di nascosto verso Rultini in attesa di essere avvicinato da lui; il professore invece, Rultini (per i suoi studî linguistici, con qualche ironia, veniva detto professore), guardava altrove, duro, impettito. Da allora non scambiarono più una sola parola, il che destò generale sorpresa perché la questione per il posto di Venezia durava già da lungo tempo e da principio i due vecchi avevano affettato anche maggiore amicizia che di solito.
Ciappi raccontava che c’era stata una disputa alla quale egli non credeva che Rultini avrebbe dato tanta importanza; era scoppiata all’osteria per un motivo futile, una parola detta da lui leggermente, senza malizia. Un giorno, trovandosi nella stanza di Alfonso, provò il bisogno di parlare anche a lui delle sue relazioni con Rultini. Alfonso comprese ch’era una mossa diplomatica astuta ma sbagliata; Ciappi lo credeva ancora sempre amico in casa Maller e sperava conquistarsene la simpatia e influire col suo mezzo su Maller.
— Rultini mi odia ora, ecco la ragione per cui un semplice battibecco, quali ne abbiamo avuti insieme parecchi, possa essere degenerato in tale modo. A lui sembra che io l’abbia tradito, ma per amicizia a lui io non poteva mica sacrificare la maggior fortuna a cui io possa mai aspirare. Io però volevo restare suo amico e si poteva limitare la rivalità a quel solo punto. Egli invece perdette la testa in modo indegno.
L’indignazione di Ciappi era bellissima, umana, ma alla banca si diceva ch’era lui che aveva le maggiori probabilità di vittoria, e infatti, con la sua scienza legale, doveva apparire più idoneo al posto di dirigente che l’altro con la sua filologia, e perciò Alfonso, pur dicendo di dargli ragione, pensava che al posto di Rultini neppur Ciappi sarebbe stato tanto ragionevole e calmo.
Ebbe anche l’occasione di sentire dall’altro le sue ragioni. Era andato in contabilità a cercarvi un copialettere e s’era fermato a parlare con Miceni, mentre Rultini in un canto con Marlucci discuteva focosamente ma a bassa voce. Miceni fece cenno ad Alfonso di tacere e stettero ambidue ritti ma in attitudine di parlarsi, così che gli altri due infervorati sempre più non si accorsero di essere ascoltati.
Rultini per primo alzò la voce:
— Egli sapeva che io assolutamente avevo bisogno di quel posto perché la mia posizione qui non è sostenibile, mentre a lui il mutamento apporta poco vantaggio. Il suo è quindi un tradimento.
Anche Marlucci gridò per farsi udire, ma pacatamente, da persona cui è facile vedere le cose oggettivamente. Disse che non si poteva esigere da nessuno che rinunziasse ad una tale buona fortuna per amicizia e ch’egli dava torto a chi per primo aveva fatto di una rivalità d’affari un’inimicizia privata. Sarebbe stato dovere di Rultini di fare al più presto la pace con Ciappi.
Rultini gridò ch’era disposto a tutto, magari a rinunziare volontariamente al posto ambito, ma non a fare questa pace. Asseriva che questo suo odio non era nato per il solo fatto della loro rivalità in affari, ma perché all’osteria, dinanzi ad altre persone, senz’alcun riguardo, gli aveva rimproverato un errore fatto nell’ultima liquidazione.
— Egli è astuto! si dà l’aria d’indifferente, ma intanto lavora quieto all’ombra, rubandomi quel poco di considerazione di cui ancora posso godere.
Aveva sul suo volto grasso, ancora senza rughe, una grande sorpresa dolorosa che sentendosi tanto infelice gli venisse anche dato torto, e ad Alfonso fece compassione.
Uscito Rultini, Marlucci, con certo risolino cattivo, si rivolse a Miceni: — Gli ho detto la mia opinione.
Avvenne l’imprevisto. Maller accordò il posto di dirigente della filiale di Venezia a