— Che cosa vuole quest’imbecille? — chiese Alfonso alludendo all’eroe che passava accanto alla moglie che lo amava, in un corridoio oscuro, per dignità fingendo di non vederla. — Questa dignità esiste poi?
S’inginocchiò dinanzi ad Annetta e cercò di riprenderle la mano. Era detto ed era agito bene con aspetto di spontaneità mentre realmente si trattava di un’audacia calcolata. Ella si mise a ridere, ma avvicinò la sua alla testa bruna di Alfonso e nessuno dei due avrebbe saputo dire come fossero giunti per la prima volta a baciarsi sulle labbra. Egli lo aveva previsto tanto poco, che cessato il contatto gli parve di non averne sentito tutta la felicità che avrebbe dovuto e tentò di rifarsi in un secondo bacio. Ma ella aveva allontanata la testa e s’era alzata in piedi spaventata, non sembrandole, seduta, di essere al sicuro. Aveva però le guancie intensamente colorate dal sangue, gli occhi splendidi, lucenti e gli diede un’occhiata che ad Alfonso non parve d’ira quantunque Annetta dovesse avere avuto l’intenzione di intimidirlo. Così era assolutamente bella.
— Basta, signor Nitti!
Egli si alzò e restando fermo al suo posto, con voce sorda dall’agitazione, le disse per tranquillarla che veramente bastava, ch’egli avrebbe potuto viverle accanto tutta la vita e non chiederle altro.
Annetta sorrise per ringraziarlo; si sentiva di nuovo al sicuro accanto a quel ragazzo. Era stata proprio questa qualità di ragazzo che l’aveva portata con lui tanto innanzi. Che cosa aveva da temere da quella timidezza personificata? Era stata commossa dalla soavità di quell’amore senza parole, da quel silenzio timido perdurante anche dopo una prima arditezza lasciata impunita. Egli non aveva mai in nessun modo accennato a quel bacio rubato sulla sua mano, non aveva tradito impazienza ed ella ingenuamente aveva creduto ch’egli non chiedesse altro. Ingenuamente e superbamente. Ammetteva che il piccolo favore, perché venuto da lei, potesse bastare.
Avevano ora fatto un passo gigantesco innanzi e non c’era più via al ritorno. Avevano parlato e quello ch’era peggio Alfonso aveva assistito alla commozione da persona debole di Annetta, aveva improvvisamente scoperto di essere lui il più forte.
Annetta non se ne accorse e non comprese, e con un sorriso che doveva attenuare il dispotismo del suo ordine gl’impose di mai più parlarle d’amore. Venne subito disingannata. Egli chiese per grazia di poterne parlare anche una volta e fece una dichiarazione in piena regola, mescolando ricordi di romanzi letti con frasi da lungo tempo rimuginate nel cervello e che non attendevano che l’occasione per venir rivolte ad Annetta. Era stato il suo più vivo desiderio di poterle parlare del suo amore e aveva pensato che quella sarebbe stata la sua prima creazione poetica; accompagnato sempre dalla parola intelligente, l’amore ne sarebbe stato nobilitato, elevato, ed era per essa che la differenza delle loro condizioni doveva essere dimenticata. Invece ora si accorgeva che il desiderio non ha parola. Mentre si abbandonava a delle sentimentalità di proposito, perché gli sembrava che così fosse suo dovere, ne sentiva la convenzionalità senza sangue e senza vita e se ne meravigliava non sapendo a che cosa attribuire tale freddezza. Soltanto quando parlò dell’intimità amichevole con Annetta, la sua voce si fuse e tremò in una commozione che gli toglieva il respiro. A questa dolce intimità pensava dacché aveva avvicinato Annetta per la prima volta, ma ora, parlandone, tutt’altro desiderio si vestiva della stessa parola e passandogli dinanzi agli occhi gli dava le vertigini.
— Io lo sapeva, — disse Annetta con sincerità — ma sarebbe stato meglio di non dirmelo.
Lo minacciò scherzosamente col dito e sul suo volto passò un’ombra di serietà. Del resto, come a lui che le diceva, a lei le parole di amore sembravano più fredde di quanto le aveva precedute e provocate; di quelle non temeva. Non erano che una soddisfazione alla sua vanità e lo interruppe dicendogli con grande dolcezza:
— Basta, basta! — così che se Alfonso non vi si fosse annoiato avrebbe continuato.
Per quella sera bastò, ma non per il seguito. Fino ad allora timido anche per calcolo, Alfonso s’era accorto quanto maggior felicità gli fosse derivata dal passo fatto. Con sufficiente chiarezza gli era stato indicato fino a quale punto gli era lecito di andare, e, se non oltre, voleva almeno trovarsi sempre là. Ne aveva conquistato il diritto. Ogni sera diceva ad Annetta la parola d’amore; se prima non lo poteva, andandosene, stringendole la mano per congedarsi.
Improvvisamente Francesca era ridivenuta la compagna indivisibile di Annetta. Assisteva sempre alle loro sedute ed ora che poco o nulla lavoravano al romanzo, ella prendeva parte attiva ai loro discorsi. Era scomparso ogni sforzo nelle sue relazioni con Annetta dapprima fredde poi esageratamente amichevoli, e le due donne cinguettavano dinanzi a lui di mode, di viaggi, di persone ch’egli non conosceva, lasciandolo imbarazzato e muto. Rimaneva muto anche quando parlavano d’altro, perché proprio non si sentiva più di rivolgere ad Annetta né frasi banali, né disquisizioni critiche. Tutto ciò era troppo freddo, nullo e mancava di scopo. A che scambiare delle parole che a lui non importava di dire, a lei di udire? Egli rimuginava ancora delle parole, ma erano tali che dovevano ammettere, immediatamente dopo dette, qualche atto ardito e appassionato. D’altro non gl’importava. Il bacio sulla mano di Annetta gli aveva dato il bisogno di parlare, quello sulle labbra glielo aveva tolto.
Veniva sempre ricevuto in quel tinello perché c’era la stufa e là ogni oggetto gli ricordava i desideri e le soddisfazioni avute. Quella confusione di mobili diversi, ogni singolo oggetto, quei mobili grevi e comodi, erano indissolubilmente legati alle sue sensazioni, gli parevano parte di Annetta o specchi che ridavano sempre la sua figura. Quando lo si faceva attendere, lungamente solo in quel tinello, si cullava in tali sensazioni e divenivano tanto forti, la vicinanza di Annetta tanto sensibile, che se costei improvvisamente fosse entrata, l’avrebbe presa fra le braccia e trattata come cosa propria, dicendole una sola parola che gli sembrava che tutto dovesse spiegare e giustificare. Veniva invece prima Francesca e trovava Alfonso confuso, inceppato dalla parola che aveva preparata e che doveva rimanergli nella strozza.
Una sera venne Francesca e lo avvisò che Annetta era stata costretta ad accompagnare il padre da certi parenti. Non lo avevano potuto rendere avvisato in tempo, gli disse Francesca con un sorriso malizioso, ma lo pregava di rimanere perché ella gli poteva tenere compagnia. Alfonso non seppe reggere a tale disillusione. Stette lì impalato per un quarto d’ora a rispondere a monosillabi alle domande che la signorina aveva la bontà di fargli, poi, per levarsi dalla noia di dover fingere, se ne andò dicendo ch’era venuto soltanto per scusarsi che doveva mancare per quella sera perché indisposto. Francesca lo salutò con un inchino ironico ma benevolo.
Per l’impazienza il contegno di Alfonso perdette la correttezza che Annetta fino ad allora aveva amato in lui, e se non se ne adirò subito fu perché ogni sua sconvenienza veniva spiegata e scusata da sofferenze visibili. Quando Francesca soltanto si avvicinava ad una finestra per guardare sulla via egli improvvisamente diventava attivo, energico, mentre fino ad allora era rimasto ripiegato su se stesso, sui propri sogni e desiderî, assente del tutto. Le diceva la parola d’amore con una mezza voce che conservava le inflessioni del grido, un grido melodrammatico, rotto.
Agli occhi di Annetta il suo maggior delitto fu di non saper conservare immutato il suo contegno con i terzi. Dinanzi ad altra gente egli ridivenne muto come altra volta per timidezza e peggio anche perché appariva malcontento e irritato. Prarchi venuto un mercoledì gli chiese se stesse male. La domanda aprì finalmente la bocca ad Alfonso perché per descrivere se stesso poteva ancora parlare. Parlò commosso di una sua malattia che non sapeva definire, un’inquietudine che gli toglieva il sonno, il piacere allo studio, la gioia della vita; tutto l’annoiava.
Con tutta serietà Prarchi diede il suo parere medico. Naturalmente qualificò la malattia indefinita per malattia di nervi e diede il consiglio di andare a passare un mesetto a casa sua, all’aria aperta. Annetta, quantunque dovesse aver compreso di quale malattia si trattasse, gli propose con dolcezza di chiedere per lui il permesso. L’offerta di curarlo in tale modo irritò Alfonso così che si lasciò trascinare ad esclamare:
— Dovrei andare molto lontano acciocché mi giovasse.
Se Prarchi non fosse stato tanto semplice da voler fare la diagnosi della malattia