Giunto a casa trovò un bigliettino di Annetta col quale lo invitava a portarsi la dimane da lei.
“Mio buon amico!” Già l’intestazione sarebbe dovuta bastare a toglierlo dalla sua disposizione e dargli una gioia immensa. Invece lesse e rilesse cercandovi quello che non c’era: l’assicurazione ch’egli aveva avuto torto di temere di Fumigi e di dubitare dell’amore di Annetta per lui. Quel biglietto non escludeva la sua sventura, e se momentaneamente la escludeva non ne toglieva la minaccia. Alla calma non sapeva ritornare, ed anche il sentimento di essere tanto più felice che poco prima non era aggradevole. Specialmente quando è passato, il dolore ha delle attrattive seducenti, e ai deboli ambiziosi è soddisfazione di potersene vestire. Era felicità quella derivante da questa situazione quando il caso gli aveva rivelato quale sventura questa stessa situazione potesse apportargli? Poteva sempre esser gettato da parte come una cosa inutile, e non appena Annetta lo avesse negletto egli sarebbe ridivenuto il povero impiegatuccio al quale non sarebbe stato neppure lecito dimostrare il proprio dolore.
Non era più quel dolore che poco prima lo aveva cacciato per le vie della città, ma una grande commozione, un compianto di se stesso. Se Fumigi era stato respinto, la sua relazione con Annetta continuava immutata apparentemente; realmente la sua gelosia, i suoi timori, la minaccia che gli era stata fatta, gliela rendevano insopportabile. Non v’era che una via per uscire da tale situazione. Poteva essere lui il primo a ritirarsi e almeno, per quanto addolorato di dover fare una tale rinunzia, avrebbe potuto ripensare a tutta l’avventura senz’arrossire, senza sentirsene offeso. Neppure interrotta così però, il ricordo ne sarebbe stato piacevole. La durezza e la vanità di Annetta che gli sembrava di avere scoperte allora allora non avrebbe mai saputo dimenticare. Era stata dura l’esperienza ch’egli aveva fatta e gli sarebbe servita per tutta la vita. Voleva ora ritornare alle sue abitudini da puritano, a quell’ideale di lavoro e di solitudine che nessuno gli contendeva. Quella era la felicità. L’abitudine e la regolarità gliela dovevano dare.
Ma quando si trovò con Annetta, quando ella gli strinse la mano affettuosamente, col medesimo dolce sorriso con cui lo aveva congedato pochi giorni prima, come se nulla nel frattempo fosse avvenuto da poter turbare i loro buoni rapporti, egli dimenticò questi propositi. Poteva uscire da quella situazione, ora lo comprendeva, anche altrimenti che abbandonando il giuoco. Altro rammarico non sentiva che di non saper dire prontamente tutto ciò che nei giorni precedenti aveva supposto e sospettato per provocare una spiegazione che poteva bensì togliergli l’amicizia di Annetta, ma forse anche raffermarla, migliorarla, svelarglisi quale amore. Intanto, per timidezza, al suo volto non lasciò esprimere che tranquillità e cordialità.
Erano nel tinello e soli perché Francesca era indisposta. Annetta parlò di un capitolo del romanzo, fece delle proposte per esso; Alfonso le approvò e senza sforzo poté mostrare di ammirarle. Non era il momento di accalorarsi per idee critiche. Annetta avrebbe però avuto bisogno di qualche consiglio perché trovava delle difficoltà a procedere in un argomento che tendeva all’assurdo. I suoi due eroi erano ancora sempre là, amandosi appassionatamente e per superbia non dicendoselo. Alla conclusione del romanzo non mancava che questa confessione e nella testolina di Annetta cominciavano a mancare le idee per tirare innanzi.
Improvvisamente Alfonso divenne ciarliero. Ciarlava per il bisogno di parlare, e parlò del romanzo e della sua ammirazione per le idee di Annetta perché d’altro non poteva. Quando si grida è indifferente quale parola si vesta del grido, lo sfogo si trova nell’emissione di voce. Alfonso nel fiume delle proprie parole si calmava e se tacque fu proprio per calcolo e con isforzo al pensare che se non lasciava parlare Annetta nulla da lei avrebbe potuto apprendere. Per ultimo e con una freddezza di calcolo che immediatamente lo portò allo scopo, descrisse con parola animata la sua vita di ogni giorno concludendo che di un anno intero le ore liete da lui vissute sommavano a pochi giorni quantunque contasse fra quelle tutte le ore passate in casa Maller.
Invitatane, Annetta descrisse come aveva passato l’ultima settimana. Quando ella cominciò, Alfonso arrossendo la guardò fisso, non sembrandogli sufficiente attenzione l’ascoltare. Voleva indovinare quando da quella esposizione ella sarebbe stata portata a pensare a Fumigi e voleva vedere come, pensandoci, atteggiasse il volto.
Quella settimana era stata due volte a teatro. Aveva però avuto anche parecchie sere di noia ed una sera era stata lì lì per mandarlo a pregare di venir a sollevarla dalla noia con le sue idee filosofiche e la sua collaborazione al romanzo.
— Sarei venuto tanto volentieri! — mormorò Alfonso con voce soffocata dall’emozione.
— Sì? — chiese Annetta arrossendo ella pure — per un’altra volta, siamo intesi?
Fu questa gentilezza che diede un coraggio da leone ad Alfonso.
— Niente altro? — mormorò quand’ella ebbe finito di descrivere la sua settimana.
— Niente altro! — rispose Annetta sorpresa e tutt’ad un tratto impallidendo.
— Io ho passato una brutta settimana — disse Alfonso con voce profonda.
Le raccontò ch’era stato avvisato minacciargli una sventura e che dapprima non ci aveva creduto, ma che ad ogni passo aveva trovato indizii che sussisteva la minaccia e fors’anche la sventura in modo che quando seppe che quest’ultima era stata evitata non volle crederlo perché da troppo lungo tempo l’aveva ritenuta inevitabile. Ancora ne dubitava. La successione dei fatti era stata esposta con tale verità che, rammentandosi del dolore provato, gli vennero le lagrime agli occhi e si fermò per arrestarle.
Fu questa la dichiarazione e quando Alfonso più tardi ci ripensò dovette sorridere perché certamente non era stato l’amore che gli aveva cacciato le lagrime agli occhi ma bensì, come sempre da lui, la compassione di se stesso. Per quanto non parlasse più, le lagrime gl’inondavano le guancie e non le rasciugava perché un gesto le avrebbe mostrate ad Annetta la quale forse non se ne avvedeva. Era la seconda volta ch’egli piangeva dinanzi a lei e la prima non aveva avuto a lodarsi del risultato ottenuto.
— Lacrime! — esclamò Annetta commossa — ed io ne sono la causa?
Volle quietarlo e lo prese amichevolmente per mano. Il gesto, non il contatto, non la soddisfazione del desiderio, rese beato Alfonso. Distruggeva il malessere che aveva sentito pel sentimento della glaciale freddezza della sua relazione con Annetta, e ci correva tanto da quella sua visione di tali rapporti a quelli reali in cui Annetta prendeva la parte di consolatore, ch’era un salto da far chiudere gli occhi. Egli baciò la mano di Annetta senza moverla. Chinò la testa fino ad arrivarci con le labbra e anche questa volta ebbe cura di rendere rispettoso l’atto ardito. Appena appena giunse a sfiorare con le labbra quella mano; era un abbozzo di bacio ed egli non desiderava neppure di andare più oltre. Fin qui non erano avanzati che di poco e sarebbero potuti ritornare alla dolcezza dei loro rapporti quasi ingenui se con quel bacio si fossero separati.
— La spiegazione è sufficiente — disse Annetta con un sorriso, ma con voce rotta dall’emozione e che sorprese Alfonso. Ritirò la mano.
— Povero Fumigi! — esclamò Alfonso cui non riuscì di mettere nella propria voce l’emozione che aveva sentita in quella di Annetta.
— Non tanto povero!
Disse ch’era uomo forte e energico il quale avrebbe saputo guarire presto di quella piccola ferita. S’era sentita onorata dalla sua domanda e non aveva accettato perché non voleva maritarsi.
— Anche il nostro ideale artistico mi fa prediligere la mia libertà, — e questa frase con quella prima persona al plurale cancellò in Alfonso l’impressione di freddo che gli aveva dato la precedente.
— Del resto, Fumigi rimane il mio buon amico, me lo promise! E adesso ritorniamo al nostro romanzo.
Ma non ci ritornarono. Lo stacco era troppo grande fra quella