Si ritrovò con Macario e costui con insistenza sospetta gli parlò di nuovo dei modi di prendere una donna. Alfonso stette a udire indifferente le brutalità che gli venivano suggerite, perché egli ora sapeva meglio quello che faceva al caso suo. Si trovava bene in quello stadio della sua relazione con Annetta e non voleva abbandonarlo senza sapere quale sarebbe stato lo stadio prossimo. Anche lontano da Annetta soffriva meno. Si annoiava nell’attesa della sera, ma non sognava tanto perché un sorriso di Annetta aveva scacciato quei fantasmi ch’ella stessa aveva creati.
Alfonso si figurava, che anche non amandolo, ella doveva essere lusingata dal suo amore e dal suo rispetto. Egli esagerava la sua timidezza perché la timidezza spiegava e rendeva possibile il prolungarsi della strana situazione.
Il lavoro letterario in mezzo a questi amori languiva ed era quello che più lusingava Alfonso, perché sembrava che anche per Annetta esso fosse divenuto cosa secondaria. Una sera avvenne che Alfonso portò del lavoro fatto e che Annetta si dimenticò di chiedergliene la lettura. In quanto procedeva però, era fatto del tutto secondo i propositi di Annetta e Alfonso sentiva ogni giorno chiarirsi più nullo il soggetto, più sciocco il romanzo. Pensava che aumentando la confidenza fra di loro sarebbe pur venuto il giorno in cui avrebbe potuto dirle la sua opinione, ma per il momento non osava neppur di esprimere il dubbio più lieve. Non voleva esporsi al pericolo di veder diminuita la luce che brillava negli occhi di Annetta quando lo guardava. Per lui quel romanzo aveva minima importanza e per esso non avrebbe acconsentito a udire neppure una parola brusca dall’amata.
Venne strappato a quell’idillio non per suo volere e non per volere di Annetta; Macario glielo aveva creato senza saperlo, Miceni e Fumigi lo distrussero.
Miceni era colui che più palesemente invidiava Alfonso per la sua famigliarità in casa Maller. Naturalmente non glielo aveva detto e come al solito Alfonso si rifiutava di ammetterlo anche quando Miceni col suo carattere bizzarro lo lasciava trasparire all’evidenza. Le piccole punture di Miceni non arrivavano a ferirlo neppure quando costui aveva cominciato col parlare di un suo amore per Annetta e pretendere che sarebbe stato corrisposto se egli ci avesse messo maggiore impegno. Alfonso, da alcune parole dettegli da Macario, sapeva che cosa egli dovesse pensare di tale avventura. Quasi accordando ad Alfonso maggiore confidenza, un giorno Miceni gli raccontò anche la ragione per cui egli aveva smesso di fare la corte ad Annetta: per riguardo a Fumigi, perché sapeva che costui ne era innamorato. Fumigi era un suo vecchio amico che gli aveva procurato l’impiego da Maller e aveva quindi diritto a riguardi da parte sua.
Quest’asserzione lasciò Alfonso meno freddo dell’altra. Anch’egli s’era accorto che Fumigi era innamorato di Annetta ed era amore che aveva, doveva riconoscerlo, molta probabilità di giungere al suo scopo. A mente fredda comprendeva che, non troppo vecchio, Fumigi era un partito conveniente per Annetta.
Avvedutosi che Alfonso si turbava quando gli si parlava di Fumigi, Miceni si prese di spesso il piacere di stuzzicarlo liberandosi della propria gelosia alla vista di quella di Alfonso.
È più difficile apparire indifferente quando non lo si è, che appassionato essendo indifferente. Miceni cominciava di solito a parlargli di affari d’ufficio, il pretesto per recarsi in quella stanza. Quando veniva costretto a nominare Annetta, Alfonso cribrava ogni parola prima di emetterla e con una disinvoltura ch’egli stesso sentiva eccessiva e da cui doveva trasparire l’affettazione ne parlava come se l’avesse vista poche volte in sua vita. La diceva bella e, per colmo d’indifferenza, confessava di desiderarla come si desiderano tutte le belle donne. Ma quando gli si parlava di Fumigi, neppure la parola voleva più ubbidire al suo proposito d’indifferenza. Non gl’importava che Miceni credesse ch’egli fosse amato da Annetta, ma gli doleva profondamente che anche un solo uomo ritenesse che l’amato fosse altri. Diceva con calma visibilmente forzata ch’egli conosceva Fumigi e che non credeva che amasse Annetta. Allora anche Miceni perdeva la calma:
— Per qual ragione vorresti che io venga a dirtelo se non fosse vero? Informati. In città lo sanno tutti all’infuori di te.
S’accalorava altrettanto lui per affermare quanto Alfonso per negare; ma Alfonso, quando s’accorgeva d’essere distante di troppo dalla sua parte d’indifferente, tagliava corto alla discussione dichiarando che la cosa poteva comportarsi come voleva, che a lui non importava niente. Le parole erano energiche, ma troppo, e l’aspetto del volto e il suono della voce tutt’altro che da indifferente.
Lieto come se avesse apportato una buona notizia, Miceni gli raccontò che Fumigi e Annetta si fidanzavano. Alfonso si mise a ridere calmo e questa volta sinceramente calmo.
— Ero ieri a sera in casa di Maller e me ne avrebbero prevenuto se fosse stato vero.
— Non è ancora ufficiale; ma probabilmente, mentre qui parliamo, Fumigi entra per la prima volta in casa di Annetta quale sposo.
La sua voce era divenuta subito acuta come se la tranquillità di Alfonso lo avesse offeso.
Alfonso non si degnò di discutere. La sera innanzi Annetta lo aveva trattato anche meglio del solito. Gli aveva raccontato della sua fanciullezza, della vita di collegio ove era stata mandata alla morte della madre. Erano confidenze e, sorpreso e beato, Alfonso ci vide un altro miglioramento della sua posizione. Da qualche tempo egli si ammirava come persona abile e uscendo quella sera dalla casa Maller mormorò:
— Questa è la vera arte. Progredire senza fatica.
Per quella sera non aveva da andare da Annetta, ma pur agitato dalle parole di Miceni si aggirò lungamente per via dei Forni. La casa conservava il solito aspetto. La lunga fila di stanze non abitate aveva le finestre chiuse ermeticamente, tutte le tendine calate; una finestra del tinello soltanto era socchiusa.
Uscendo dalla via dei Forni verso il mare s’imbatté in Fumigi. Per aver tanto pensato a lui, Alfonso, vedendoselo tutt’ad un tratto dinanzi, s’imbarazzò e gli parve che la confusione dell’altro non fosse minore.
— Ella... va? — chiese Fumigi balbettando e facendo un cenno verso la casa dei Maller da cui Alfonso veniva.
— No! — disse Alfonso con vivacità. Gli sembrava che Fumigi volesse accusarlo di un delitto. — Cammino da un’ora circa per fare del movimento. Se vuole farmi compagnia...
Sulla figurina di Fumigi, vestita di solito con tanta regolarità, c’era qualche disordine; la cravatta non voleva stare a posto, il collare del soprabito nero, del resto nuovissimo, non era spiegato.
— Andiamo al porto nuovo? — chiese. Guardò ancora l’orologio e dopo una piccola esitazione si mise a camminare accanto ad Alfonso.
Tacquero movendosi ai pallidi raggi del sole che tramontava. Dal piazzale della stazione si volsero verso il mare e si fermarono sul primo molo fatto da poco, dal selciato bianco, regolare.
— Splendido! — disse Alfonso guardando il sole e lieto di poter parlare. Mezza palla incandescente guardava ancora fuori del mare. Non sembrava che la luce tranquilla, bianca che illuminava le case alla riva, provenisse da quel corpo rosso. Esso dava i riflessi rosei all’orizzonte e arrossava a metà una nuvoletta bianca, immobile sulla città nelle cui contrade interne già imbruniva.
Veramente nessuno dei due aveva occhi per il magnifico spettacolo. Alfonso osservava Fumigi che era assorto nei suoi pensieri tanto da non curarsi neppure più di celare la sua preoccupazione. Guardò di nuovo l’orologio e mormorò alcune parole che Alfonso non intese; poi si cacciò le mani in tasca fremendo dall’impazienza e guardando l’acqua sotto ai suoi piedi. Aveva dimenticato persino d’essere accompagnato.
— Ha fretta? — gli chiese Alfonso.
— No! — rispose Fumigi — mi basta d’essere a un appuntamento per le sette e mezzo.
Quanto gli era stato raccontato da Miceni era dunque vero, e Alfonso pensò che l’appuntamento a cui Fumigi importava di giungere in tempo era con Maller. Fumigi attendeva una decisione e Alfonso si credeva ancora tanto sicuro del fatto suo che quell’impazienza