“Non ho molto tempo,” disse senza tanti convenevoli. “Come posso aiutarvi?”
L’uomo parlava un inglese perfetto. L’espressione di John si illuminò e gli rispose con il suo pesante accento. “È lei che si occupa del caso di Amanda Johnson?”
Il dottore annuì. Non offrì nessun’altro particolare e aspettò, un piede nella stanza e uno fuori.
All’interno Adele scorse la figura della vittima distesa su un letto. La camera era buia, le luci spente. Tre diversi scherni mostravano i segni vitali della ragazza, con numeri che lampeggiavano e pulsavano. La giovane giaceva immobile sotto a due coperte. Il respiratore sembrava un macchinario estraneo, un dispositivo di invasione. I tubi, il metallo, le luci intermittenti: il tutto contribuì ad aumentare l’ansia di Adele. La ragazza sembrava così piccola, come una bambina rinchiusa in una trappola per orsi, o avvolta in una bara di tubi, metallo e vetro delle dimensioni di un ospedale.
Adele rabbrividì e distolse lo sguardo, rifiutandosi di continuare a guardare. “C’è niente che possa dirci?” chiese a labbra strette. “Si riprenderà?”
Il medico parlò con tono rapido e secco. Sembrava irritato dalla loro presenza, ma Adele sospettò che fosse irritato da tutto. “La poverina è scappata,” disse. “Ha passato ore nella foresta. Ecco,” disse. “Guardate voi stessi.”
Tirò fuori una cartella da una fessura accanto alla porta e la porse ad Adele. Lei abbassò lo sguardo, sfogliando le grandi foto, gli occhi che si socchiudevano su ciascuna.
Prima di tutto vide i piedi della ragazza. Tagli profondi su tutta la pianta, la pelle sbucciata, la terra sotto alle unghie e all’interno delle ferite. Due unghie mancavano del tutto e un paio di dita erano di colore bluastro.
“Congelati?” chiese Adele.
“Quasi,” disse il dottor Samuel. “Quei tagli, li vede? Per aver corso a piedi scalzi nella foresta. Terreno duro. Qualsiasi cosa l’abbia spaventata, l’ha fatta andare avanti nonostante il dolore.”
Adele annuì. “E il resto del corpo?”
Il dottore tirò fuori la prima immagine, girandola sopra alla cartella. Indicò quella accanto. “Altri lividi e piccoli tagli in tutto il corpo. Qui e qui.”
Adele scorse dei graffi sopra all’ombelico e altri lividi sopra al petto della ragazza.
“Ma qui,” disse l’uomo, “queste sono ferite più vecchie. Vecchie cicatrici.”
“Quanto vecchie?” chiese Adele rapidamente.
Il medico scosse la testa. “Nella sua condizione è difficile dirlo. Stiamo ancora cercando di capirlo. Ma non pensiamo che sia rilevante per la sua condizione attuale.”
“Cinque mesi?” chiese Adele.
Ma il medico scosse la testa. “Di più. Anche se questa,” disse sommessamente, “potrebbe rientrare in quel lasco di tempo.”
Passò all’ultima foto, che mostrava la sommità della testa della ragazza, con parte dei capelli rasati.
“Che cos’è?” chiese John.
Adele guardò soltanto. C’era una piccolissima cicatrice sopra a un lembo di carne sollevato. Era guarita, ma malamente.
“Questa ha cinque mesi?” chiese Adele.
“Cinque mesi senza cure od ospedale. Cinque mesi se qualcuno continua a stuzzicarla. Sì. Può vedere come si è allargata la cicatrice e come la ferita non si sia mai del tutto rimarginata.”
Adele si voltò lentamente verso John e l’agente Marshall, inarcando le sopracciglia. “Cinque mesi fa. Pensate che sia stato in questo modo che l’aggressore l’ha sottomessa?”
Il dottor Samuel si schiarì la gola. “È stato un colpo alla nuca. Potrebbe benissimo averle fatto perdere conoscenza, se è questo che vi state chiedendo.”
Adele premette le labbra tra loro, pensando. Guardò il contegno preoccupato del medico, il suo volto segnato dalle rughe. “Nient’altro?”
“Ho trovato qualche altra ferita. Segni di abusi. Un braccio rotto e risistemato in malo modo. Segni che potrebbero corrispondere a lividi causati da pugni. Ho anche visto dei graffi sulla schiena della ragazza che potrebbero derivare da un animale o da unghie lunghe.”
“Magari uno degli altri rapiti dallo psicopatico?” commentò John sottovoce. “Ha detto che ce n’erano degli altri.”
Adele esitò, considerando tutti quei dati preoccupanti, poi si rivolse nuovamente al dottore. “Quante possibilità ci sono che sia in grado di parlare con noi?”
Il medico stava ancora con un piede sulla soglia e uno fuori. Scosse la testa. “Non molte. Le possibilità di un recupero totale sono scarse. Come ho detto, è rimasta in quella foresta per ore, a correre tra gli alberi. I tagli non sono l’unica cosa di cui dobbiamo preoccuparci. Il freddo ha avuto il suo effetto sui suoi polmoni. Era in ipotermia quando è arrivata qui.”
“È sedata?”
“Per il dolore. Ma non molto. È in coma. Attaccata al respiratore.”
Adele guardò ancora nella stanza e le ci volle un momento, ma poi scorse il macchinario di compressione dell’aria: una cosa in plastica bianca e beige con un sacco di pulsanti.
“La ragazza è rimasta sui suoi piedi così a lungo solo perché è di tempra tosta,” disse il medico. “Molte persone potrebbero non avercela fatta per così tanto tempo in mezzo alla foresta. Soprattutto non avrebbero percorso tanta strada. L’adrenalina l’ha spinta avanti. È stata fortunata a trovare la statale in quel momento. Altrimenti sarebbe morta in qualche buca in mezzo al bosco.”
Adele si accigliò. “È un pensiero macabro.”
“Eppure vero. Senta, ho altri pazienti. Se non c’è altro,” disse il dottor Samuel interrompendosi.
Adele guardò i suoi colleghi, ma loro rimasero in silenzio. Gli investigatori salutarono il medico e lo guardarono allontanarsi, percorrendo il corridoio con passi lunghi che stridevano con il suo aspetto anziano.
Adele si girò verso la Marshall. “Hai il numero di telefono dei genitori della ragazza?”
La Marshall non perse un secondo. “Negli Stati Uniti? Con il fuso orario, è giorno inoltrato e dovresti riuscire a trovarli al telefono.”
Adele annuì riconoscente e aspettò che la Marshall sfogliasse il suo bloc notes alla ricerca dei giusti dettagli.
La porta vicino alla quale il dottore si era trovato fino a poco fa si stava ancora chiudendo, rallentata da un meccanismo a molla sopra alla cornice. Quando si fu chiusa, li escluse dalla vista della stanza, con il respiratore e Amanda Johnson.
“Troviamo una sala del personale, così posso fare questa chiamata,” disse Adele, la bocca nuovamente tesa in una linea severa.
Adele ascoltava il sommesso trillo del telefono. Aveva su di lei un effetto stranamente calmante: il metallo fresco premuto contro la guancia, il tut tut che assomigliava al cinguettio di una ninna-nanna. Era seduta con un ginocchio premuto contro la lunga gamba di John. Lui era accasciato sulla sua sedia, le braccia incrociate e gli occhi fissi su di lei.
L’agente Marshall ancora una volta stava in piedi. Adele si chiedeva se la giovane agente fosse mai stanca. La Marshall aveva chiuso la porta della sala del personale alle loro spalle e aveva anche tirato le tende per ottenere maggiore privacy.
Adele ascoltava il trillo.
Abbassò lo sguardo sul numero sotto al suo braccio piegato, scritto a mano su un pezzo di carta che la Marshall le aveva dato. Il numero era giusto. Forse aveva sbagliato con il fuso orario.
Un altro trillo. Adele stava per mettere giù il telefono, quando si sentì