“Non è troppo piccola. Sta crescendo. E’ il momento che si comporti da grande.”
Gary diede a Libby una brutta spinta. La bimba si ritrovò a tre metri dal punto. Si voltò e provò a tornare indietro, ma Gary allungò la mano per fermarla.
“Huh-uh” fu l’intervento del bambino. “Io e Denise ci siamo andati. Ora tocca anche a te.”
Libby deglutì forte e si voltò, per affrontare lo spazio vuoto con i suoi due oggetti piegati. Aveva l’orrenda sensazione che potessero stare a guardarla.
Ricordò di nuovo le parole del papà …
“I fantasmi non esistono.”
Il papà non avrebbe mentito su una cosa del genere. Allora, di che cosa aveva paura?
Inoltre, si stava arrabbiando per via della prepotenza di Gary. Era quasi tanto arrabbiata quanto spaventata.
Gliela farò vedere, pensò.
Con le gambe ancora tremanti, fece un passo dopo l’altro, finché non giunse all’interno del grosso spazio quadrato. Mentre si dirigeva verso l’oggetto metallico, Libby si sentì infine più coraggiosa.
Nell'istante in cui si avvicinò all’oggetto — più vicino di quanto Gary o Denise fossero andati — si sentì molto fiera di se stessa. Ma ancora non riusciva a stabilire che cosa fosse.
Con più coraggio di quanto pensasse di possedere, allungò la mano verso l’oggetto. Spinse le dita tra le foglie d’edera, sperando che la mano non finisse afferrata o mangiata, o forse persino peggio. Le dita finirono per toccare il freddo tubo di metallo.
Che cos’è? la bambina si chiese.
Ora percepì una lieve vibrazione nel tubo. E sentì qualcosa. Sembrava provenire proprio dall’interno del tubo.
Si abbassò molto vicino all’oggetto. Il suono era lieve, ma sapeva che non era frutto della propria immaginazione. Il suono era vero, ed era come se fosse una donna che piangeva e gemeva.
Libby ritrasse la mano dal tubo. Era troppo spaventata per muoversi, parlare, urlare o fare altro. Non riusciva nemmeno a respirare. Era come quella volta che era caduta da un albero sulla schiena, e le era mancato il fiato.
Sapeva di doversi allontanare. Ma restò immobile. Era come se dovesse dire al corpo come fare a muoversi.
Voltati e corri, pensò.
Ma per pochi terrificanti secondi, non riuscì a farlo.
Poi, le gambe sembrarono cominciare a correre da sole, con tutta la forza che avevano, e la bambina si trovò in corsa verso il margine dello spiazzo. Era terrorizzata, al pensiero che qualcosa di molto brutto potesse raggiungerla e trascinarla con sé.
Quando arrivò al margine del bosco, si piegò dal dolore, annaspando per respirare. Ora, si rese conto che non aveva nemmeno respirato per tutto il tempo.
“Che cosa c’è?” Denise chiese.
“Un fantasma!” Libby sussultò. “Ho sentito un fantasma!”
Non attese una risposta. Si staccò dal gruppo, e corse via quanto più velocemente possibile, tornando da dove erano venuti. Sentì il fratello e la cugina correre dietro di lei.
“Ehi Libby, fermati!” il fratello le gridò. “Aspetta!”
Ma non si sarebbe fermata per nessuna ragione, finché non fosse arrivata al sicuro a casa.
CAPITOLO QUATTRO
Riley bussò alla porta della camera di April. Era mezzogiorno, e sembrava davvero giunta l’ora che la figlia si alzasse. Ma la risposta non fu quella che aveva sperato.
“Che cosa vuoi?” giunse la risposta soffocata e scontrosa dall’interno della stanza.
“Dormirai tutto il giorno?” Riley chiese.
“Sono in piedi ora. Sarò di sotto tra un minuto.”
Con un sospiro, Riley tornò in fondo alle scale. Avrebbe voluto che Gabriela fosse lì, ma prendeva sempre un po’ di tempo per sé la domenica.
Riley sprofondò nel divano. Per tutto il giorno precedente, April era stata imbronciata e distante. Riley non aveva capito come eliminare quella sconosciuta tensione tra di loro, e si era sentita meglio, quando April era andata ad una festa di Halloween la sera. Visto che si era svolta a casa di un’amica, che abitava a pochi isolati da lì, Riley non se n’era preoccupata. Almeno non fino a quando non era stata l’una di notte passata, e la figlia non era ancora rientrata.
Per fortuna, April era comparsa mentre Riley era ancora indecisa se agire o meno. Ma la figlia era arrivata ed era andata dritta a letto, senza nemmeno dire una parola alla madre. E, finora, non sembrava molto incline a comunicare quella mattina.
Riley era contenta di essere a casa e di poter provare a risolvere qualunque cosa ci fosse che non andava. Non aveva accettato di seguire il nuovo caso, e la cosa la faceva sentire ancora nervosa. Bill continuava a riferirle i progressi. Aveva saputo così che il giorno prima,insieme a Lucy Vargas, era andato a indagare sulla scomparsa di Meara Keagan. Avevano interrogato la famiglia presso cui la donna lavorava, e anche i vicini nel condominio. Non avevano trovato alcuna pista.
Oggi, Lucy si stava occupando di svolgere una ricerca generale, coordinando diversi agenti che stavano distribuendo volantini con la foto di Meara. Intanto, Bill stava aspettando - con molta impazienza - che Riley decidesse di occuparsi o meno del caso.
Ma non doveva decidere subito. Tutti a Quantico sapevano che la donna non sarebbe stata disponibile il giorno seguente. Uno dei primi killer, che lei aveva consegnato alla giustizia, stava per essere rilasciato in Maryland. Non testimoniare a quell’udienza era semplicemente fuori questione.
Mentre Riley rimuginava sulle proprie scelte, April arrivò, scendendo le scale, completamente vestita. Si diresse in cucina, senza nemmeno rivolgere uno sguardo alla madre. Quest’ultima si alzò e la seguì.
“Che cosa mangiamo?” chiese April, guardando all’interno del frigorifero.
“Potrei prepararti della colazione” Riley rispose.
“Va bene. Troverò qualcosa.”
April tirò fuori un pezzo di formaggio, e chiuse la porta del frigorifero. Sul banco della cucina, ne tagliò una fetta, e si versò una tazza di caffè. Aggiunse panna e zucchero alla bevanda, si sedette al tavolo della cucina, e cominciò ad addentare il formaggio.
Riley si sedette con la figlia.
“Com’è andata la festa?” le chiese.
“Bene.”
“Hai fatto piuttosto tardi.”
“No, non è vero.”
Riley decise di non litigare. Forse l’una del mattino non era davvero tardi per i quindicenni che andavano alle feste. Come poteva saperlo?
“Crystal mi ha detto che hai un ragazzo” esclamò la donna.
“Sì” April disse, sorseggiando il caffè.
“Come si chiama?”
“Joel.”
Dopo pochi istanti di silenzio, Riley chiese: “Quanti anni ha?”
“Non lo so.”
Riley sentì un nodo d’ansia e rabbia formarsi in gola.
“Quanti anni ha?” ripeté.
“Quindici, va bene? Proprio come me.”
Riley era sicura che April stesse mentendo.
“Mi piacerebbe conoscerlo” Riley disse.
April roteò gli occhi. “Cristo, mamma. In che anni sei cresciuta?