Ma che cos’era quel posto, con tutti quegli orribili rumori?
Si rese conto consapevole del fatto che era trasportata come un pacco. Sentì la voce dell’uomo che la stava trasportando, che parlava al di sopra del frastuono.
“Non preoccuparti, siamo arrivati qui in tempo.”
Gli occhi cominciarono a mettere a fuoco la zona circostante. Vi era un’incredibile quantità di orologi di ogni grandezza, forma e stile concepibili: c'erano imponenti pendoli, altri orologi più piccoli, alcuni dei quali a cucù; ne notò altri dotati di piccole serie di uomini meccanici. Orologi ancora più piccoli erano stipati su delle mensole.
Tutti stanno scoccando l’ora, comprese.
Ma in tutto quel caos sonoro, non riusciva a decifrare l’esatto numero di gong e campanelli.
Voltò la testa, per vedere chi la stava trasportando. L'uomo la guardò. Sì, era quello che le aveva chiesto aiuto. Era stata una sciocca a fermarsi per lui. Era caduta nella sua trappola. Ma che cosa le avrebbe fatto?
Mentre il suono degli orologi cessava, si accorse che non riusciva a tenere gli occhi aperti. Si sentì svenire.
Devo restare sveglia, pensò.
Avvertì poi un tintinnio metallico, e si accorse di essere stata delicatamente deposta su una superficie rigida e fredda. Ci fu un altro tintinnio, seguito da passi, e infine una porta si aprì e si chiuse. La moltitudine di orologi continuava a ticchettare.
Poi, sentì un paio di voci femminili.
“E’ viva.”
“Male per lei.”
Le voci erano sommesse e roche. Meara riuscì ad aprire di nuovo gli occhi. Vide che il pavimento era solido e grigio. Si voltò dolorosamente, e vide tre forme umane sedute sul pavimento vicino a lei. O almeno, credeva che fossero umane. Sembravano giovani donne, adolescenti, ma erano magrissime, più che scheletriche: le loro ossa s’intravedevano chiaramente sotto la pelle. Una di loro pareva a malapena cosciente, con la testa pendente in avanti e gli occhi fissi sul pavimento grigio. Le rammentavano alcune foto di prigionieri nei campi di concentramento.
Erano ancora vive? Sì, dovevano esserlo. Le aveva appena sentite entrambe parlare.
“Dove siamo?” Meara chiese.
Riuscì a stento ad udire la risposta, debole come un sibilo.
“Benvenuta” una delle ragazze rispose, “all’inferno.”
CAPITOLO UNO
Riley Paige non vide partire il pugno ma i suoi riflessi erano ancora buoni. Sentì il tempo rallentare, mentre il primo colpo si dirigeva verso il suo stomaco. La donna indietreggiò, mandandolo a vuoto. Poi, notò un violento gancio sinistro diretto alla sua testa, saltò di lato e lo scansò. Quando l'avversario si fece più sotto, sferrando un colpo verso il suo volto, Riley si mosse fulminea e bloccò il pugno tra i guantoni.
A quel punto, il tempo riprese il suo normale ritmo. Riley sapeva che quella serie di colpi era durata meno di due secondi.
“Bene” commentò Rudy.
Riley sorrise. Rudy ora si limitava a tenersi in costante movimento, per evitare i colpi, più che pronto al contrattacco della donna. Riley faceva lo stesso, muovendosi, facendo finte e provando a tenerlo sulle spine.
“Non c’è alcuna di fretta” Rudy disse. “Riflettici a fondo. Pensa come se stessi giocando una partita a scacchi.”
Riley si sentì infastidita ma proseguì i suoi movimenti laterali. Ci stava andando piano con lei. Perché?
Ma sapeva che era giusto così. Questa era la prima volta che affrontava un vero avversario sul ring. Fino ad allora, aveva messo alla prova le sue mosse su un sacco pesante. Ricordò a se stessa di essere soltanto una principiante in questo tipo di combattimento. Era davvero un ottimo suggerimento quello di non avere fretta.
Mike Nevins aveva voluto che lei si allenasse. Lo psichiatra forense, che collaborava con l’FBI, era anche un buon amico di Riley. Lei lo aveva spesso consultato, quando aveva affrontato i suoi momenti di crisi.
Di recente, si era lamentata con Mike riguardo alla propria difficoltà a controllare gli impulsi aggressivi. Perdeva la pazienza troppo spesso. Era agitata.
“Prova ad allenarti” Mike aveva suggerito. “E’ un ottimo modo per sfogarsi.”
In quel momento, era sicura che Mike avesse ragione. Era bello trovarsi a prendere decisioni rapide, affrontando vere minacce invece di quelle immaginarie; al tempo stesso era rilassante affrontare minacce non mortali.
Altrettanto valida si era rivelata l'idea di iscriversi in una palestra che l’aveva allontanata dal quartier generale di Quantico, dove aveva trascorso innumerevoli ore. Questo invece era stato un cambiamento gradito.
Si accorse, d'improvviso, di aver indugiato troppo a lungo. E vide negli occhi di Rudy che l’uomo si stava preparando ad un altro attacco.
Lei scelse mentalmente la sua prossima mossa e si lanciò brutalmente contro di lui. Il suo primo pugno fu un diretto sinistro, che l’altro evitò in meno di un secondo, rispondendo con un destro a incrociare, che sfiorò l'elmetto d'allenamento di Riley, la quale replicò con un diretto destro, bloccato con i guantoni. In un lampo, la donna reagì con un diretto sinistro, che lui evitò spostandosi lateralmente.
“Bene” Rudy ripeté.
Ma non andava bene per Riley. Non aveva messo a segno un solo pugno, mentre lui l’aveva colpita leggermente, pur rimanendo sulla difendeva, e la donna iniziava a sentire l’irritazione crescere dentro di sé. Ma rammentò le parole che Rudy le aveva detto all’inizio dell’allenamento …
“Non aspettarti di mettere a segno molti pugni. Non lo fa nessuno. Non durante l’allenamento, in ogni caso.”
Ora stava guardando i guantoni dell’avversario, consapevole di un nuovo imminente attacco. Ma proprio in quel momento, una strana trasformazione operò nella sua mente.
I due guantoni si trasformarono in una sola fiamma—la bianca fiamma sibilante di una torcia al propano. Era di nuovo in una gabbia, al buio, prigioniera di un killer sadico di nome Peterson, che stava giocando con lei, costringendola ad evitare la fiamma e a sottrarsi al suo calore ustionante.
Ma era stanca di essere umiliata. Questa volta era determinata a ribellarsi. Quando la fiamma si avvicinò al suo viso, si spostò e, contemporaneamente, sferrò un forte diretto, che non andò a segno. La fiamma le girò intorno e lei contrattaccò con una colpo incrociato, anch'esso a vuoto. Ma, prima che Peterson potesse fare un’altra mossa, assestò un montante proprio al mento …
“Ehi!” Rudy gridò.
Quella voce riportò Riley alla realtà. Vide che Rudy era disteso sulla schiena sul tappetino.
Come ci è finito? si chiese.
Poi, si rese conto di averlo colpito — e forte.
“Oh mio Dio” gridò. “Rudy, mi dispiace!”
Rudy sorrise e si rimise in piedi.
“Non preoccuparti” le disse. “Sei stata brava.”
Ripresero l’allenamento. Il resto della sessione fu tranquillo, e nessuno di loro mandò a segno i pugni. Ma ora, tutto sembrava positivo per Riley. Mike Nevins aveva ragione. Era proprio la terapia di cui lei aveva bisogno.
In ogni caso, continuò a chiedersi quando sarebbe riuscita a liberarsi da quei ricordi.
Forse mai,