Jessie non capiva perché ciò meritasse una tale discrezione, ma decise di non indagare oltre. Pochi secondi dopo Morgan ricomparve in salotto con una spessa risma di carte in mano.
“Felice di avervi visto, signore,” disse. “Mi spiace di non potermi fermare, Kim. Ricordati che ho una cosa al circolo stasera, quindi farò tardi.”
“Va bene tesoro,” disse sua moglie, seguendolo per assicurarsi un bacio prima che lui scappasse dalla porta.
Quando se ne fu andato, Kimberly tornò nel salotto, ancora emozionata dall’inaspettata visita.
“Giuro che si muove con tale decisione da far pensare che sia lui il profiler criminale, o qualcosa del genere.”
Il commento gettò il gruppo in un’ondata di risate. Jessie sorrise, non esattamente sicura di cosa ci fosse di tanto divertente.
*
Un’ora dopo, era tornata nel suo salotto, e stava cercando di trovare l’energia per aprire lo scatolone di fronte a sé. Mentre tagliava con attenzione il nastro adesivo, ripensò al caffè a casa di Kimberly. C’era qualcosa di strano, ma non riusciva esattamente a capire cosa.
Kimberly era dolcissima. A Jessie piaceva veramente, e apprezzava soprattutto lo sforzo che stava facendo per aiutarla. E le altre donne erano tutte carine e piacevoli, un bel gruppetto. Ma c’era qualcosa… di misterioso nelle loro interazioni, come se condividessero tutte un qualche segreto di cui Jessie non era al corrente.
In parte pensava di essere semplicemente paranoica al riguardo. Non sarebbe stata la prima volta che saltava in modo avventato alla conclusione sbagliata. Lo stesso, però, tutti i suoi insegnanti nel programma di psicologia forense alla USC l’avevano sempre apprezzata per il suo intuito. Non sembravano pensare che lei fosse paranoica, se non piuttosto “sospettosamente inquisitoria”, come un professore l’aveva definita. Al tempo le era sembrato un complimento.
Aprì la scatola e tirò fuori il primo oggetto, una foto incorniciata del suo matrimonio. La fissò per un momento, guardando le espressioni felici sul proprio volto e su quello di Kyle. Al loro fianco si trovavano membri delle loro famiglie, anche loro raggianti di gioia.
Mentre scorreva con gli occhi il gruppo lì ritratto, sentì improvvisamente sorgere dentro di sé un’altra volta la malinconia. Una tensione ansiosa le strinse il petto. Ricordò a se stessa di inspirare profondamente, ma nessun numero di inspirazioni ed espirazioni riuscì a calmarla.
Non era esattamente sicura di cosa le avesse causato questo nervosismo: i ricordi, l’ambiente, il litigio con Kyle, una combinazione di tutti questi fattori? Qualsiasi fosse la ragione, Jessie riconobbe nondimeno la verità di fondo. Non era più capace di controllare questa condizione da sola. Doveva parlare con qualcuno. E nonostante l’acuta sensazione di fallimento che iniziava a sopraffarla mentre prendeva il telefono, digitò il numero che aveva sperato di non dover più utilizzare.
CAPITOLO SETTE
Fissò un appuntamento con la sua vecchia terapeuta, la dottoressa Janice Lemmon, e solo il pensare che andarci avrebbe voluto dire tornare nella sua vecchia zona la rimise a proprio agio. Il panico era sceso quasi immediatamente dopo aver programmato la seduta.
Quando Kyle tornò a casa quella sera – addirittura presto – ordinarono del cibo da asporto e guardarono un film di scarsa qualità, seppur divertente, sui mondi paralleli, intitolato Il tredicesimo piano. Nessuno di loro si scusò formalmente, ma parevano aver riscoperto insieme la loro comfort zone. Dopo il film non andarono neanche al piano di sopra per fare sesso. Kyle le saltò semplicemente sopra direttamente lì sul divano. A Jessie tornarono in mente i primi giorni da sposati.
Le aveva addirittura fatto la colazione la mattina successiva, prima di uscire per andare al lavoro. Era disgustosa – toast bruciato, uova poco cotte, come anche il beacon di tacchino – ma Jessie apprezzò il tentativo. Si sentiva un po’ a disagio a non raccontagli dei propri programmi per la giornata. Però lui non le aveva chiesto nulla, quindi non si poteva parlare di bugie.
Non fu fino a quando si trovò sulla tangenziale quella mattina, con davanti a sé la veduta dei grattacieli del centro di Los Angeles, che Jessie sentì veramente cadere il corrosivo turbinio di nervosismo che aveva nello stomaco. Aveva fatto il viaggio dalla Contea di Orange in meno di un’ora ed era arrivata in città tanto presto da potersi fare una passeggiata in centro. Mise l’auto nel parcheggio vicino all’ufficio della dottoressa Lemmon, di fronte all’Original Pantry, all’angolo tra la Figueroa e la Nona Ovest.
Poi le venne in mente di chiamare la sua ex compagna di stanza alla USC, oltre che vecchia amica del college, Lacey Cartwright, che viveva e lavorava nella zona, per vedere se riuscivano a incontrarsi. Rispose la segreteria telefonica, e Jessie lasciò un messaggio. Mentre imboccava la Figueroa in direzione dell’Hotel Bonaventure, Lacey le mandò un messaggio per dirle che era troppo occupata per vedersi quel giorno, ma che si sarebbero di certo incontrate la prossima volta che Jessie fosse stata nei paraggi.
Chissà quando sarà?
Scacciò la delusione dalla testa e si concentrò sulla città che la circondava, ammirando l’esplosiva visuale e i rumori che erano così diversi da quelli del nuovo ambiente dove viveva. Quando arrivò alla Quinta Strada, svoltò a destra e continuò a passeggiare tranquillamente.
Le ricordò quei giorni, non poi tanto tempo prima, in cui faceva questa stessa cosa per più e più volte nel corso di una sola settimana. Se stava lavorando a un caso di studio per la lezione, spesso usciva in strada e girovagava, usando il traffico come sottofondo neutro mentre ripensava mentalmente al caso per trovare finalmente un modo per affrontarlo. Il suo lavoro era quasi sempre più efficace se aveva del tempo per passeggiare in centro e giocherellarci un po’.
Tenne da parte l’imminente discussione con la dottoressa Lemmon mentre rivisitava mentalmente il caffè del giorno precedente a casa di Kimberly. Ancora non era riuscita a inchiodare la natura della misteriosa segretezza delle donne che aveva incontrato lì. Ma una cosa le balzò in testa in retrospettiva: quanto fossero tutte così disperatamente desiderose di conoscere ogni dettaglio dei suoi studi di psicologia criminale.
Non era in grado di dire se fosse perché la professione che stava per intraprendere sembrava così insolita o semplicemente perché era una professione e basta. Ripensandoci, si rese conto che nessuna di quelle donne lavorava.
Alcune lo facevano un tempo. Joanne si era occupata di marketing. Kimberly le aveva detto di aver lavorato in un’agenzia immobiliare quando abitavano a Sherman Oaks. Josette aveva diretto una piccola galleria a Silverlake. Ma ora erano tutte mamme che stavano a casa. E anche se sembravano felici delle loro nuove vite, si mostravano anche insaziabili davanti a dettagli riguardanti il mondo professionale, pronte a divorare avidamente, quasi con senso di colpa, ogni boccone di intrigo.
Jessie si fermò rendendosi conto di essere in qualche modo arrivata all’Hotel Biltmore. Ci era stata molte volte prima d’ora. Era famoso, tra le altre cose, per aver ospitato alcuni dei primi Academy Awards negli anni Trenta. Una volta le avevano anche raccontato che era dove Robert Kennedy era stato assassinato da Sirhan Sirhan nel 1968.
Ai tempi in cui doveva ancora decidere di fare la tesi sul DNR, Jessie aveva sfiorato l’idea di eseguire un profilo di Sirhan. Quindi si era presentata un giorno senza preavviso e aveva chiesto al portiere se facevano visite guidate dell’hotel, incluso il sito della sparatoria. L’uomo era rimasto perplesso.
Gli ci erano voluti alcuni imbarazzati secondi per capire di cosa lei stesse parlando, e almeno altrettanti per spiegarle educatamente che l’assassinio non era avvenuto lì, ma presso l’Hotel Ambassador, ora demolito.
Aveva poi tentato di smorzare il colpo raccontandole che JFK aveva ottenuto la nomina democratica a presidente al Biltmore nel 1960. Ma Jessie era rimasta troppo umiliata per restare ad ascoltare quella storia. Nonostante la vergogna, l’esperienza le aveva insegnato una valida lezione che ancora ricordava bene: non dare niente per scontato,