Jessie uscì dal letto cercando di ignorare la testa che le pulsava mentre si portava con passi strascicati fino al bagno. Dopo una doccia di quindici minuti, per la metà passata seduta sulle piastrelle gelide, si sentì pronta a vestirsi e a scendere di sotto. In cucina vide un bigliettino lasciato sul tavolo della colazione. Diceva “Scusa ancora per ieri sera. Mi piacerebbe avere un altro invito quando vorrai. Ti amo.”
Jessie lo mise da parte e si fece del caffè e una zuppa d’avena, l’unica cosa che si sentiva capace di mandare giù in quel momento. Riuscì a mangiarne mezza tazza, buttò il resto nella spazzatura e si diresse nel salotto d’ingresso, dove la aspettavano una dozzina di scatoloni non ancora aperti.
Si accomodò nella poltroncina con un paio di forbici, posò il caffè sul tavolino e tirò uno scatolone verso di sé. Mentre passava senza prestare attenzione da uno scatolone all’altro, spuntando gli oggetti sulla lista man mano che li trovava, vagò con la mente alla sua tesi DNR.
Se non fosse stato per il loro litigio, Jessie avrebbe di certo raccontato a Kyle non solo del suo imminente tirocinio presso la struttura, ma anche delle conseguenze della sua tesi originale, incluso il suo interrogatorio. Quella sarebbe stata una violazione del suo Accordo di non divulgazione.
Ovviamente lui era al corrente dei principali punti, dato che avevano discusso insieme il progetto durante la sua ricerca. Ma il Comitato le aveva fatto giurare segretezza al riguardo in seguito, anche nei confronti di suo marito.
Le era sembrato strano nascondere una parte così grossa della sua vita al proprio compagno. Ma le avevano assicurato che era necessario. E a parte qualche domanda generica su come fossero andate le cose, lui non le aveva mai fatto veramente pressione sull’argomento. Poche vaghe risposte lo avevano soddisfatto, e al tempo la cosa era stata per lei un sollievo.
Ma ieri, con l’entusiasmo che provava per ciò che stava per fare – visitare un ospedale mentale per assassini – trovandosi a un livello mai raggiunto prima, era pronta a metterlo al corrente di tutto, nonostante il divieto e le sue conseguenze. Se il loro litigio poteva avere un effetto positivo, era di averle impedito di dirglielo e di mettere quindi a rischio il futuro di entrambi.
Ma che genere di futuro è, se non posso condividere i miei segreti con mio marito? E se lui non sembra curarsi del fatto che me li tenga per me?
A quel pensiero, Jessie si sentì avvolgere da un leggero alone di malinconia. Cercò di liberarsene la testa, ma non era così facile.
Venne sorpresa dal suono del campanello. Dando un’occhiata all’orologio, si rese conto di essere rimasta seduta nello stesso punto, persa nel suo umore cupo e con le mani appoggiate su uno scatolone ancora chiuso per almeno dieci minuti.
Si alzò e andò alla porta, cercando di scuotersi di dosso la tristezza a ogni passo. Quando aprì la porta, davanti a lei c’era Kimberly, con un gioioso sorriso stampato in viso che Jessie cercò di imitare al meglio.
“Ciao vicina,” le disse con entusiasmo Kimberly. “Come procede lo svuotamento degli scatoloni?”
“Lentamente,” ammise Jessie. “Ma grazie per avermelo chiesto. Come stai?”
“Sto bene. A dire il vero ci sono un po’ di signore del vicinato a casa mia in questo momento per un caffè di mezza mattina, e mi chiedevo se volessi unirti a noi.”
“Certo,” rispose Jessie, felice di avere una scusa per uscire di casa alcuni minuti.
Prese le chiavi, chiuse e si allontanò insieme a Kimberly. Quando arrivarono, quattro teste si girarono verso di loro. Nessuno dei volti le apparve familiare. Kimberly presentò tutte e portò Jessie alla postazione del caffè.
“Non si aspettano che ricordi i loro nomi,” sussurrò mentre versava loro delle tazze da bere. “Quindi non sentirti sotto pressione. Ci sono passate tutte prima di te.”
“Questo è un bel peso in meno,” confessò Jessie. “Ho così tante cose che mi riempiono la testa in questi giorni, che faccio fatica a ricordarmi il mio, di nome.”
“Completamente comprensibile,” disse Kimberly. “Ma devo avvisarti: ho già parlato di tutta quella roba del profiler dell’FBI, quindi è probabile che ti facciano qualche domanda.”
“Oh, ma io non lavoro per l’FBI. Non mi sono ancora neanche laureata.”
“Non importa, fidati. Pensano tutte che tu sia una Clarice Starling in carne e ossa. Il mio pronostico sui riferimenti ai serial killer è tre.”
Kimberly aveva di gran lunga sottovalutato la situazione.
“Stai seduta nella stessa stanza di quei tizi?” chiese una donna che si chiamava Caroline, con i capelli così lunghi che alcune ciocche le arrivavano al sedere.
“Dipende dalle regole della struttura,” rispose Jessie. “Ma non ne ho mai intervistato uno senza un profiler o investigatore professionista vicino a me a farmi da guida.”
“I serial killer sono tutti così furbi come sembrano nei film?” chiese con tono esitante una donnina timida e introversa che si chiamava Josette.
“Non ne ho intervistati così tanti da poterlo dire con certezza,” spiegò Jessie. “Ma sulla base della letteratura esistente, come anche secondo la mia esperienza personale, direi di no. La maggior parte di questi uomini – e sono quasi sempre uomini – non sono più intelligenti di me o te. Alcuni la passano liscia per molto tempo grazie a indagini fiacche. Alcuni riescono a scamparla perché scelgono vittime di cui nessuno si cura: prostitute e senzatetto. Ci vuole un po’ perché la gente si accorga che quelle persone mancano. E a volte sono soltanto fortunati e basta. Non appena mi sarò laureata, il mio lavoro sarà di cambiare la loro fortuna.”
Le donne la continuarono a punzecchiare gentilmente di domande, apparentemente non interessate al fatto che lei non si fosse ancora laureata, né fosse personalmente coinvolta in un caso di analisi comportamentale.
“Quindi non hai mai realmente risolto un caso?” chiese una donna particolarmente inquisitoria che si chiamava Joanne.
“Non ancora. Tecnicamente sono ancora una studentessa. Sono i professionisti a gestire i veri casi. Ma parlando di professionisti, voi cosa fate?” chiese Jessie nella speranza di deviare un po’ tutto quell’interesse concentrato su di sé.
“Io lavoravo nel marketing,” disse Joanne. “Ma era prima che nascesse Troy. Mi tiene piuttosto impegnata in questi tempi. È un lavoro a tempo pieno, di per sé.”
“Ci scommetto. Sta facendo un pisolino, ora?” chiese Jessie.
“Forse,” disse Joanne dando un’occhiata all’orologio. Si alzerà presto per uno spuntino credo. È al nido.”
Oh,” disse Jessie, prima di tentare la domanda successiva, con la maggiore delicatezza possibile. “Pensavo che la maggior parte dei bimbi che stanno al nido avessero mamme lavoratrici.”
“Sì,” disse Joanne, apparentemente non offesa. “Ma lì sono così bravi che non potevo non iscriverlo. Non ci va tutti i giorni. Ma i mercoledì sono un’impresa, quindi di solito ce lo porto. La metà della settimana è dura, giusto?”
Prima che Jessie potesse rispondere, la porta che conduceva al garage si aprì ed entrò un tizio robusto sulla trentina, con un cespo di capelli rossi spettinati in testa.
“Morgan!” esclamò Kimberly con gioia. “Cosa ci fai a casa?”
“Ho lasciato il rapporto nello studio,” rispose l’uomo. “Ho la presentazione tra venti minuti, quindi devo tornare di corsa.”
Morgan, a quanto pareva il marito di Kimberly, non sembrò per nulla sorpreso di vedere mezza dozzina di donne nel suo salotto. Passò tra loro salutando in modo generico il gruppo. Joanne si sporse verso Jessie.
“È una specie di ingegnere,” le disse sottovoce, come se fosse una sorta di segreto.