– E non gli chiede nemmanco il suo nome! – borbottò fra i denti mastro Benedicite, in quella che andava a sedersi al suo posto consueto, nel basso, della tavola. – Già, egli è sempre stato così, come tutti i suoi vecchi! Suo padre, il taciturno, non apriva la bocca che cinque o sei volte all'anno, e ci volevano proprio i forastieri, per fargliele metter fuori, quelle quattro parole! —
Il pellegrino, intanto, si era seduto a fianco del conte Ugo, e dalle sue mani aveva ricevuto la coppa ospitale; ma in cambio di recarsela alle labbra, stava curiosamente a guardarla.
– Vi piace questa coppa, messer pellegrino? – ripigliò a dire il conte Ugo. – A me duole di non potervela offerire in presente, dacchè essa è la coppa dei signori di Roccamàla, la coppa di un mio famoso antenato, che portava appunto il mio nome, or sono forse cento e trent'anni. Non è egli vero, mastro Benedicite?
– Sì, messere; – rispose il vecchio, – Ugo il negromante mori nel 1150. E la coppa, narrano le cronache, fosse quella di Borman, gigante che i Liguri adorarono poscia come un dio, la quale fu donata al conte Ugo dalla fata Melusina. Il santo vescovo Gualberto voleva buttarla giù nel torrente, ma il vostro trisavo Aleramo…
– Basta, basta! – interruppe il Conte. – Ecco già un monte di parole per una coppa che non ne franca la spesa, quantunque sia d'oro. Ella ha un sol pregio, messer pellegrino; vo' dire l'amorevolezza con la quale io la presento a' miei ospiti.
– Lo so, messer lo Conte, lo so; – rispose il romèo. – Questa è la fama che di voi corre nel mondo.
Quindi, rivoltosi alla brigata, soggiunse, innanzi di recar la coppa alle labbra:
– Nobili messeri, io bevo alla vostra felicità, se pure è possibile che un uomo sia al mondo felice.
– Grazie dell'augurio, messer pellegrino; – disse Ansaldo di Leuca; – ma voi m'avete l'aria di dubitarne. O perchè non potrebbe uomo esser felice in questo mondo?
– In hac lacrymarum valle; – borbottò mastro Benedicite. – Ora vediamo che cosa gli sa risponder costui. A' suoi pari non hanno di certo a mancar le ragioni! —
Ma il pellegrino li lasciò a bocca asciutta ambedue, contentandosi a rispondere:
– Messere, a chiarirvi cotesto per bene, si vorrebbe una troppo lunga dissertazione.
– E voi sarete stanco; – entrò a dire il conte Ugo.
– Oh, non già, messer lo Conte! – rispose il pellegrino. – Vengo da Roma a piccole giornate, e non fo molta fatica. Oltre di che, il còmpito ch'io m'ho preso laggiù, mi ha consentito di giovarmi dell'opera di un ronzino; e Lutero, comunque non faccia gran mostra di membra, è un animale che sa il debito suo.
– Che nome! Lutero! – esclamò Enrico Corradengo.
– Un nome greco; – rispose il pellegrino – a Roma si studia molto il greco, oggidì.
– Gran città, quella Roma! non è egli vero, messer pellegrino?
– Sì, davvero, gran città; e chi non l'ha veduta, sia detto con vostra licenza, nobili messeri, non ha veduto nulla. E dire che di presente ella non è ancor giunta a quel tanto di grandezza che papa Leone X ha in mente!
– Leone X! – non potè rattenersi dallo interrompere mastro Benedicite. – O non è più papa Onorio IV?
– Ah! voi siete forte di cronologia, a quel che pare, mastro Benedicite! – rispose il pellegrino. – Onorio IV se ne è salito diritto al cielo, dove sta pregando per la conservazione di Santa Madre Chiesa e pel suo trionfo sui tristi che le fan guerra. Ora abbiamo pontefice il sant'uomo Leone X, munificentissimo principe, il quale dà opera a grandi e laudabili novità. Vedrete la basilica di San Pietro, quando sarà riedificata, e mi saprete dire s'ella non sarà divenuta la più gran meraviglia del mondo cattolico. —
Così dicendo, il pellegrino fece col capo il cenno di chi ha nominato una cosa sacra. Mastro Benedicite non aggiustava fede a' suoi orecchi medesimi. Quell'umile e costumato pellegrino, che parlava con tanta reverenza cristiana, era egli colui che di là dal ponte levatoio di Roccamàla gli aveva pur dianzi parlato, a lui mastro Benedicite, in sì beffarda maniera? Un uomo avveduto avrebbe, a dir vero, notate sulla faccia del pellegrino, segnatamente ai lati delle labbra, alcune rughe, nelle quali usa nascondersi l'ironia, e in certe guardature, che accompagnavano le parole, sarebbe colto in flagranti lo scherno. Ma il buon falconiere, quantunque sapesse di latino, non era uomo da intendere questi nonnulla; argomentate poi se potesse coglierli a volo! Egli era come trasognato, e già si pentiva in cuor suo di aver così male inteso, e peggio giudicato, un uomo che faceva testimonianza di tanta religione.
– E come si vive a Roma? – domandò Fiordaliso. – Chi non ha sulle spalle i gravi carichi della santa religione, non ci morrà mica di noia?
– Dio ne guardi, messere! Roma è l'Atene d'Italia. Sua Santità è un uomo co' fiocchi; vo' dire un degno vicario di Dio. Il redentore del mondo è rappresentato laggiù come si addice a così alto barone. E il Machiavelli, con la sua Mandragora! Quella è una commedia! Il papa ha già voluto udirla recitare due volte. E il Bembo! Che piacevole uomo e che latinista di vaglia! Figuratevi, nobili messeri, ch'egli ha scritto ad un amico suo, non avesse a leggere le epistole di san Paolo, per non guastarsi la buona latinità! La mercè di questo valentuomo, che è segretario ai brevi, gli oracoli del Vaticano sono espressi con una eleganza, che non fu mai la maggiore. La vergine Maria si chiama Dea Lauretana; papa Leone è assunto al pontificato jussu deorum immortalium; celebrar la messa da morto si chiama litari Diis manibus, ed altre frasche simiglianti, che capirà per bene mastro Benedicite, il quale ho udito essere molto intendente della lingua del Lazio. —
Lo strozziere, toccato nel suo debole, chinò gli occhi modestamente sul tagliere. La diffidenza, che gli era nata in petto contro il forastiero, incominciava ad andarsene in fumo.
– Voi dicevate, messer pellegrino, della basilica di San Pietro.
– Affè, sarà quella un'opera stupenda. Figlio di Lorenzo il Magnifico, Leone X non farà che cose magnifiche. Ma ci bisognan danari.
– Nulla res sine pecunia! – sentenziò Benedicite.
– Sì, veramente, e a cotesto si pensa per l'appunto ora, e chiunque aiuterà alla grand'opera avrà indulgenze a macca.
– E voi, messer pellegrino, – entrò a dire il Conte, – se ben m'appongo, ne avete in buon dato.
– Sì, messer lo Conte, ne porto attorno per cui piacciono. Vo in Monferrato; di là passerò in Lamagna, dove spero il negozio abbia a prosperare più assai che in ogni altra parte d'Europa. Ahimè, sono stato un grande scioperato fino ad ora, e mi bisogna racquistare il tempo sprecato, con qualche opera buona. Ma già questi non sono discorsi da farsi a mensa, e in compagnia di tanti orrevoli cavalieri. Proseguite, di grazia, i vostri interrotti ragionari, se pure ad un forastiero è permesso di udirli.
– Che diamine! Noi stavamo appunto per chiedere una ballata a Fiordaliso, il nostro bel paggio, che la pretende a poeta, e, in fede mia, non senza ragione.
– Mi sarà grato udire ciò che bisbigliano le Muse nell'orecchio di un sì leggiadro garzone.
– Oh, non vi aspettate grandi cose, messer pellegrino! – rispose Fiordaliso, che si era fatto rosso come una brace. – Io non ho studiato d'arte poetica, e vo strimpellando il liuto come un menestrello villereccio.
– Suvvia, Fiordaliso, non ci buttiamo giù di questa guisa! Il nostro ospite avrà forse udito più valorosi trovatori che tu non sia; ma io metto pegno che egli non rimarrà al tutto scontento dei fatti tuoi. Sentiamo dunque la tua ballata! —
Il paggio non si fece pregare più oltre, e andato a pigliare in un cantuccio il liuto, incominciò a trarne parecchi accordi,