– Mastro Benedicite, – rispose uno degli arcieri, alzandosi dalla panca, – noi non ci siam mossi di qui. Se il ponte era alzato, come voi dite, penso che lo sarà tuttavia.
– No, vi dico; è calato.
– Sarà qualche paggio, – entrò a dire un altro della brigata, in quella che tutti uscivano dalla camera per tener dietro allo strozziere, – sarà qualche paggio randagio, che ne fa qualcuna delle sue.
– Baie! Questi manigoldi si calano giù nel fosso dalle finestre, quando loro metta conto di uscire a far le scorribande nel vicinato. E così si fiaccasse una volta il collo, messer Fiordaliso, che ha introdotto il costume di appendersi alle scale di corda! Ma qui, vivaddio, gatta ci cova, o voi altri avete calato il ponte, ed ora che siete alticci dal vino, non ve ne ricordate più altro. —
Gli arcieri, che ben sapevano di non averci messo mano, ma che pure volevano farla finita con le sfuriate di quell'autorevole personaggio, non risposero verbo. Chi tace acconsente; e per tal guisa fu tacitamente ammesso che il ponte di Roccamàla, la sera del 29 novembre, giorno di san Saturnino, dell'anno del Signore 1284, era stato levato e calato.
Ma quel ch'era stato disfatto bisognava rifare. E già si appigliavano alle manovelle per trarre le catene, allorquando si udì dall'altro lato del fosso lo scalpito di un cavallo che risaliva galoppando il pendìo, e, subito dopo, lo squillo di un corno che domandava ospitalità al conte Ugo di Roccamàla.
– Chi diamine giunge a quest'ora? – esclamò uno degli arcieri.
– Proprio a tempo, – soggiunse un altro, – per farci risparmiar la fatica!
– E come ha fretta, il sere! E' suona alla disperata.
– Su, su, tirate, alla croce di Dio, e non mi state a far chiacchiere! – interruppe lo strozziere.
– O perchè volete voi che si alzi il ponte, ora, per calarlo da capo? E l'ospite che giunge, per dove volete che passi?
– Che ospite del malanno! Vada a farsi impiccare per la gola…
– Ma… e messer lo Conte, se giunge a risaperlo…
– Messer lo Conte… messer lo Conte… vi comando io, e pagherò io per tutti. —
E dicendo queste parole, il vecchio strozziere tremava a verghe.
– Poffarbacco! – esclamò uno degli arcieri – si direbbe che avete paura di una visita di messer Satanasso in persona. Basta, sia come vi talenta, o, per parlar latino alla vostra guisa, fiat volontas tua, mastro Benedicite. Orsù, figliuoli, alle manovelle!
– Sì, sì, alle manovelle! – ripetè lo strozziere, più morto che vivo, senza stare a piatire coll'arciere, e mettendosi all'opera egli stesso con le braccia tremanti.
– Ohè! ohè! messeri! In tal guisa si ricevono gli ospiti, dalla gente costumata?
Queste parole, accompagnate da un riso sarcastico, venivano dall'altra banda del fosso. Mastro Benedicite non poteva scorgere chi fosse, essendo egli sotto la luce della lanterna, e il nuovo capitato fermo di là dal ponte nella oscurità della notte; ma tant'è, gli parve di scorgere un paio d'occhiacci fiammeggianti, e per moto naturale si recò le dita alla fronte, per farsi il segno della croce.
– Domine salvum fac… Vade retro Satana… – borbottò egli tra i denti. – Alzate, alzate, in nome di Dio!
Intanto il riso sarcastico si faceva udire da capo, e la voce con esso.
– Ah! ah! grazie, grazie, per mia fe', mastro Benedicite! Un povero romèo è egli dunque un cane tignoso, che gli si chiudano le porte sul muso? In verità ch'io mi facevo più ospitali i signori di Roccamàla. —
Tocco nel vivo, lo strozziere si fe' qualche passo innanzi, ma senza por piede sul tavolato del ponte, e tirando intorno a sè tutti gli arcieri, perchè gli facessero buona difesa; quindi, con voce che si provava a far parere sicura, rispose:
– I signori di Roccamàla furono sempre e saranno i più ospitali cavalieri della cristianità, messer pellegrino, e cotesto abbiatevelo per fermo. Appunto in quest'ora c'è corte bandita a tutti i più riputati che portino spada e cappa in questi dintorni, e scorre il vin di Cipro, che alla mensa del serenissimo doge di Venezia non se ne bee del migliore. Ma gli ospiti del magnifico conte Ugo son persone a modo, e non hanno la vostra meschina figura, messer pellegrino, sebbene io la scorgo attraverso questa mezza oscurità.
– Ah, voi giudicate l'uomo dalla apparenza? Io dovrei pigliarvi allora per un otre, se bene vi scorgo a mia volta. Andate là, mastro Benedicite… e non vi faccia meraviglia ch'io vi chiami col vostro nome, poichè l'hanno pur mo' gridato gli uomini vostri. Andate là, ed annunziate al magnifico conte Ugo la venuta di un povero pellegrino di Roma.
– Di Roma! – ripetè con piglio d'incredulità lo strozziere, in quella che dentro di sè si raccomandava a tutti i santi del calendario.
– Ne dubitate? Ci ho gusto. L'uomo che dubita è l'uomo che pensa. Ma io ci ho di buone testimonianze a mettervi fuori, che potranno acquetare la vostra timorata coscienza. Vengo da Roma, dove ho visto il Papa e la Santa Madre Chiesa, che fanno insieme una buonissima vita. Peccato che non abbiano figliuoli! Basta, io porto qui, sulla sella del mio magro ronzino, una gerla di coroncine benedette e d'indulgenze plenarie, e poi le più succose dispense che ogni buon cristiano possa desiderare; dispense di sgravarsi senza dolore, checchè sia stato decretato in contrario; dispense di mangiare il proprio simile, quando si abbiano buoni denti, e di bere senza ubriacarsi, mettendo acqua nel vino. Che ve ne pare, mastro Benedicite? son io degno di entrare?
– Su, su, arcieri! – urlò il vecchio strozziere. – Alle catene, alle catene!
Ma sì, a persuaderli che gli tenessero bordone! Gli arcieri erano rimasti stregati dalle bizzarrie del pellegrino, e sghignazzavano ereticamente, senza badare alle furie di mastro Benedicite. Ed egli a gridare, a tempestare, a pigliarli pel collo (che la paura gli raddoppiava le forze), fino a tanto non li ebbe ridotti all'obbedienza. Ma, sebbene ci si mettessero tutti, ed egli medesimo si provasse ad aiutarli, le catene non iscorrevano punto.
– Voi non fate il debito vostro, manigoldi; tirate a voi con quanta forza avete!
– Mastro Benedicite le catene hanno la ruggine. Intanto quell'altro continuava a ridere.
– Mastro Benedicite, la ruggine è molto più cortese dama che voi non siate cavaliero. Ora, voi vedete, già venti volte, non una, avrei potuto passare, e nol fo, per non usare villania al vostro signore. Ma se egli non è malnato castellano, udrà i tre squilli di corno che si mandano alle porte della sua rocca. —
Così parlò il pellegrino di Roma, e, posto mano al corno che gli pendeva da fianco, suonò con esso tre volte.
– Misericordia! – esclamarono gli arcieri. – Questa è la tromba del giudizio universale.
CAPITOLO II
Al primo squillo di corno, quel tale squillo che avea fatti rimanere sospesi con le braccia in aria gli arcieri, conte Ugo stette egli pure sospeso, con la coppa d'oro alle labbra.
– Un ospite! – esclamò egli, voltandosi alla brigata. – Sia il ben venuto a Roccamàla.
E bevuto un sorso, mandò attorno la tazza, quella tazza d'oro lavorato con la quale i suoi antenati, da Ugo il negromante, fino a Ruberto il taciturno, avevano avuto costume di far le loro libazioni ospitali.
– Messere, – disse Fiordaliso, – io mi penso che questo sconosciuto visitatore rimarrà un pezzo alla porta e morrà anche a ghiado, se aspetta che gli apra mastro Benedicite. —
Colui che parlava in tal guisa era un giovine sui vent'anni, vestito di un farsetto azzurrognolo listato di bianco e di vermiglio, e con una zazzera bionda le cui ciocche scompigliate scendevano a nascondergli mezza la fronte e le guancie. Il viso roseo e la delicatezza dei contorni lo avrebbero fatto togliere agevolmente