Il conte Ugo sorrise con aria affettuosa alle parole dell'adolescente.
– Che vuoi dir tu, Fiordaliso?
– Dico, messere, che con mastro Benedicite non si può uscir mai, quando s'è dentro, nè entrare, quando s'è fuori. Egli è sospettoso come una lepre, e mal per noi se gli somiglia san Pietro, o se va egli un giorno a far da portinaio in sua vece.
– Per ora, – soggiunse il Conte, – e' bisognerà che se la tolga in pace e metta mano alle chiavi. Roccamàla non è un paradiso; ma essa non è mai stata chiusa a nessun viandante che domandasse ospizio per amor di Dio, o del valoroso barone san Giorgio che l'ha in guardia. I miei antichi furono gente melanconica e contegnosa, ma a questo debito non hanno fallito mai, e non lo dimentica di certo il mio vecchio strozziere, che è il cronista della famiglia.
– Ah! gli è dunque un uomo di dottrina, il vostro Benedicite? – chiese Ansaldo di Leuca.
– Altro ci è! Non parlo dei suoi testi latini, che n'ha sempre una serqua tra i denti, parati ad uscirne fuori. Ma e' vi sa dire quando e come fu murato il castello, e poi giù giù una infilzata di storielle, che a udirne la metà v'intronerebbero il capo per un giorno e non vi lascerebbero più dormire la notte. Ma lo so ben io, che da bambino gli ero sempre sulle ginocchia e pendevo dalle sue labbra; lo stuzzicavo sempre a narrarne di nuove, e poi non c'era più verso che potessi pigliar sonno, tante erano le immagini del tempo antico, che scendevano a popolare la solitudine della mia camera. Ma questo ospite non giunge…
– Io ve l'ho detto, messere; mastro Benedicite vorrà sapere anzitutto il nome, la patria e la condizione, se scapolo o ammogliato, e Dio sa quant'altre cose di quella fatta.
– Se egli fa ciò, vuol levarmi il mio buon nome, e noi dovremo dargli una strapazzata, appena ei venga quassù. Messeri, questo vin di Cipro… Ma che diamine fa egli, quel vecchio scimunito? Ho io ad esser chiamato per cagion sua il più tristo cavaliero d'Italia?
Questa sfuriata del conte Ugo era cagionata, siccome i lettori hanno indovinato per fermo, dai tre squilli di corno che metteva il forastiere, stanco di attendere e di piatire con mastro Benedicite.
– Al nome di Dio! – esclamò Ansaldo di Leuca. – Questi è uomo di vaglia.
– E quel vecchio pazzo non se ne dà per inteso! Suvvia, Fiordaliso, scendi tu alla porta, e vedi che cos'è egli mai che ha intorpidite le gambe al nostro falconiere. —
Fiordaliso corse con quella baldanza che è propria de' giovani e che a lui era accresciuta dieci cotanti dalla amorevolezza del suo signore. Ma egli era appena sulle scale, che vide giungere ansante, trafelato, mastro Benedicite; laonde, aspettatolo sul pianerottolo, rientrò con esso lui nella sala, con una curiosità in corpo da lasciarsi indietro una dozzina di femmine. Intendiamoci bene, di femmine e non di donne, poichè tra queste e quelle, sebbene non ammessa dal vocabolario, corre una differenza grandissima.
– Orbene, mastro Benedicite, – gridò conte Ugo, appena ebbe scorto da lunge lo strozziere, – e come va che i forastieri chiedono ospitalità e non l'ottengono, a Roccamàla? —
Senonchè, fatto questo rimprovero in forma di domanda, egli vide la faccia dello strozziere, e, buono com'era, tosto raddolcì la sua voce per dirgli:
– Ma che è, Benedicite? Che cosa sono quegli occhi stralunati, e quel viso smorto?
– Egli è, messer lo Conte… – balbettò il vecchio – egli è… ho calato il ponte… cioè, l'avevo alzato e poi lo rinvenni calato… Un pellegrino, che afferma giunger da Roma… e mi pare che venga piuttosto da casa il diavolo…
– Potrebb'esser tutt'uno! – esclamò Ansaldo di Leuca.
– Sarà come voi dite, messere Ansaldo; ma io penso che questo forastiero del malanno… insomma, io so quel che mi dico…
– Sì, sì! – interruppe ridendo il conte Ugo, dopo aver fatto cenno degli occhi a Fiordaliso, il quale fu sollecito ad uscire da capo. – Ma voi avete a sapere eziandio, mastro Benedicite, che il nostro castello, anco a voler partecipare alle vostre superstizioni, non ha paura del diavolo. Qui c'è stato parecchi giorni il santissimo Bernardo di Chiaravalle, quando Roccamàla era convento del suo ordine, e la benedizione di un tanto uomo non basta ella a raffidarvi?
– Essa, con vostra licenza, messer lo Conte, non ha impedito…
– Ah, ah! vecchie storielle da raccontarsi quest'inverno accanto al fuoco. Ma dove lasciate voi, uomo di salda memoria, le benedizioni di due papi? Dove la visita del vescovo Gualberto? Macte animo, generose senex! vi dirò io, imitandovi; noi siamo armati di bolle, d'indulgenze e d'acqua santa, per ricevere anco una visita dello spirito maligno. Portae inferi… come dite voi, che io non lo ricordo più, il vostro latino?
– Non praevalebunt, messer lo Conte; e così Dio v'ascolti! – soggiunse mastro Benedicite, che, vedendosi là, al cospetto del suo signore e di tanti allegri cavalieri, incominciava a stupirsi d'avere avuto paura.
– Ben venga il diavolo, se pure è egli che giunge! – disse Ansaldo di Leuca.
– Egli è alla perfine un cavaliero di alto legnaggio, sebbene caduto in disgrazia del più possente barone del mondo, – soggiunse Enrico Corradengo, – e noi ci terremo ad onore di averlo commensale.
– Ecco un forastiero che fa parlar molto di sè, – conchiuse il conte Ugo, – e noi vedremo se la persona sua risponderà alla nostra aspettazione. Ad ogni modo, sia il benvenuto tra noi. Mastro Benedicite, aprite, vi prego, al vostro spauracchio. —
Il falconiere andò verso l'uscio della sala e la spalancò. Frattanto si udiva lo scalpiccìo dei piedi nel corridoio, e la gaia voce di Fiordaliso.
– Entrate, messere pellegrino; venite a scaldarvi e a rifocillarvi un tratto in buona compagnia. —
Allora fu veduto entrar nella sala un uomo smilzo e lungo come… dove pescherò io il paragone? come le speranze dell'autore di questo racconto.
Egli si fece innanzi, rasentando una ricca mensa, intorno alla quale erano seduti dieci o dodici convitati. La sua cappa di bigello, tutta sgualcita e rattoppata in più luoghi, il sarrocchino coperto di nicchi marini e il largo cappello che s'era lasciato ricadere dietro le spalle, facevano contrasto co' farsetti e giustacuori di velluto variopinto, con le berrette piumate, e le collane d'oro alle quali accresceva splendore la luce riflessa dei doppieri. Ma più assai che le vesti, contrastava la sua pallida faccia coi volti allegri degli ospiti di Roccamàla.
Chi era costui? Un romèo, cioè un pellegrino che veniva da Roma. Pellegrini si dicevano coloro i quali andavano a sciogliere il voto ai luoghi santi, e segnatamente al sepolcro di Cristo; romèi più propriamente coloro i quali andavano alla eterna città, per baciare il piede al Giove di bronzo, ribattezzato San Pietro, e per ottenere la benedizione del papa. Ma quello del romèo non era un mestiero, sibbene uno stato accidentale e transitorio dell'uomo; ora, che altro fosse, e a qual ceto appartenesse il nuovo venuto, non era dato d'intendere. Poteva essere un povero diavolo, che, stanco di servire gli uomini, si fosse accomodato ai servigi di Dio, od anco un barone, carico di peccati, che fosse andato a pentirsene a Roma, col cilicio alle reni e col bordone tra mani.
La cera del pellegrino non lasciava intendere se egli fosse di questa o di quell'altra specie; ma certo non era d'uomo da poco. Il viso, un tal po' allungato e scarno, mostrava que' fini contorni che non sono oggi, e per fermo non erano allora, di gente rozza e villana. Assai meno poteva indovinarsi l'età, imperocchè quel suo viso era tale da rispondere ad ogni congettura, e si poteva dargli trenta come sessant'anni; privilegio dei vecchi e dei giovani invecchiati, allorquando gli uni e gli altri abbiano membra asciutte, e carni e peli senza un colore spiccato.
Per farla finita con le dipinture, diremo ch'egli era aitante della persona, e per avventura oltre la comune degli uomini, che infine i suoi modi erano d'uomo punto impacciato nel farsi innanzi ad una nobile brigata.
Egli entrò diffatti con passo